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“Racconti d’Estate”: la seconda parte de “La Truscia” di Giuseppe Graceffa

Racconti d’Estate“, la nuova rubrica settimanale di Scrivo Libero, che per questa stagione estiva vuole allietare i nostri lettori con alcuni racconti dello scrittore aragonese, Giuseppe Graceffa (in foto), un autore poliedrico che predilige spaziare con disinvoltura tra generi letterari diversi, dal realismo alla fantascienza, nonché tra stili di scrittura differenti, dal romanzo al racconto, dalle sceneggiature ai saggi.

Finalista in diversi concorsi letterari, ha pubblicato un saggio cinematografico sulla trilogia di Matrix e un romanzo fantasy dal titolo “Il Sigillo di Khor” edito dal gruppo editoriale Twins Edizioni & David And Matthaus, disponibile in libreria o al seguente link.

Dopo il successo di “Grano Duro” e il “Dottore Licata“, oggi la seconda parte del racconto “La Truscia“:

“LA TRUSCIA”
PARTE SECONDA

Da quel momento, non rivolse più la sua attenzione al minatore e si mise ad inveire contro qualcun altro poco distante che, a suo modo di vedere, non stava facendo quello che gli aveva ordinato. Due acqualori infatti avevano maldestramente rovesciato una grossa giara d’acqua e adesso il prezioso liquido si stava riversando a terra senza che i due uomini fossero riusciti prontamente a risollevare l’enorme otre.
Saro, che era uno dei più anziani, chiamò accanto a se quelli con cui lavorava abitualmente e, dopo averli contati, si diresse verso la discenderia che li avrebbe condotti alla loro galleria.
L’ingresso della discenderia sembrava quasi la bocca nera di un mostro che inghiottiva gli uomini per sputarli fuori solo dopo averli masticati lentamente e inesorabilmente. A volte però quel mostro non espelleva i sulfarara che aveva masticato, ma li divorava completamente e li digeriva del tutto, lasciandone talvolta solamente le ossa spolpate e ingrigite.
Ma anche quel giorno, il gruppo di pirriatura seguito dai carusi, troppo abituato ad essere fagocitato dalla bocca del mostro per esserne spaventati, vi si infilò dentro e cominciò la discesa verso l’oscuro abisso di zolfo e roccia.
La discenderia si estendeva dritta verso il basso, nelle viscere della terra, con una pendenza costante resa meno ripida da una serie di gradini scavati nelle terra. Gli uomini che facevano sempre attenzione nello scendere, proseguivano lentamente, sia per ritardare quanto più potevano la discesa, sia perché i gradini erano spesso irregolari e viscidi e più di una volta qualcuno era scivolato rompendosi qualche osso del corpo, se non la testa.
Man mano che scendevano, la luce si faceva sempre più fioca e il caldo sempre più opprimente tanto che appena arrivarono nello slargo che delimitava la fine della prima discenderia, i pirriatura si tolsero i vestiti rimanendo completamente nudi mentre i carusi tennero ciascuno uno straccetto che copriva le parti intime.
Saro ripose i vestiti all’interno della truscia e se la mise in spalla per portarsela comunque dietro. Non aveva infatti intenzione di lasciare la sua “robba” neanche per un minuto. Era sicuro che nessuno l’avrebbe toccata, anche se in passato qualche minatore aveva rubato dalle sacche rimaste incustodite. Gli altri invece lasciarono le loro cose in quel piccolo locale di pietra per essere più leggeri, preferendo caricarsi solamente il piccone e la citulena, che già da soli costituivano spesso un impaccio in quei posti così stretti e angusti.
I carusi invece, dopo essersi denudati, si misero in spalla la “chiumazzata”, il sacco di canapa ripieno di paglia che serviva a proteggere la schiena, e sopra la chiumazzata adagiarono i “stiratura”, grossi cesti di vimini usati per trasportare il materiale estratto all’esterno delle gallerie.
La galleria dove lavoravano si trovava alcune centinaia di metri più in basso per cui, una volta tolti i vestiti e presi gli attrezzi di lavoro, si incamminarono nuovamente verso il basso in assoluto silenzio.
L’oscurità li avvolse completamente tanto che dovettero accendere i lumi per poter proseguire. Il buio della miniera era assolutamente unico e in nessun caso paragonabile a quello che si poteva ottenere chiudendo le finestre delle case. Saro ci aveva provato più volte a sbarrare tutte le aperture della sua misera abitazione in paese per vedere se otteneva il buio a cui tanto era abituato. Ma non c’era niente da fare. Per quanto si sforzasse, qualche sprazzo di luce, seppur debolmente, riusciva sempre a penetrare le barriere che aveva creato.
Laggiù invece, nella profondità del sottosuolo, il buio era totale e assoluto. Una nera cortina totalmente impenetrabile, talmente fitta che finiva per disorientare i sensi e oscurare la ragione. Un’oscurità che poteva quasi essere toccata, che si appiccicava addosso e lasciava senza fiato.
Anche il caldo diventava sempre più insopportabile man mano che avanzavano verso l’abisso. Il calore li lasciava grondanti di sudore e rendeva l’aria talmente pesante che sembrava quasi liquida, tanto da costringere i minatori a respirare a grandi boccate. Ogni movimento era una condanna e ogni passo un tormento. Anche tenere semplicemente gli occhi aperti era una sofferenza, ma ciò nonostante, i minatori continuarono ad andare avanti, abituati com’erano a quelle condizioni così estreme.
Arrivarono finalmente al termine della galleria che era stata loro assegnata ma dovettero abbassarsi per poter entrare all’interno dello stretto budello scavato nel terreno. La galleria infatti si restringeva notevolmente tanto da non permettere agli uomini di entrarvi e lavorare in posizione eretta per cui procedettero a quattro zampe in fila uno dietro l’altro, come cani ammaestrati.
I carusi invece rimasero dietro ad aspettare che i loro “padroni” cominciassero il lavoro, sedendo a riposarsi su alcuni spuntoni di roccia, visto che quello era l’unico momento in cui potevano lasciarsi andare per un momento.
Una volta posizionati, i pirriatura cominciarono a scalfire la parete della galleria con i picconi. Non era certamente un lavoro agevole. Dovevano rimanere seduti o in ginocchio e in quella posizione maneggiare un pesante piccone non è come destreggiarsi con un cucchiaio di fronte ad un piatto di minestra calda. Il forte caldo e la mancanza di aria rendevano poi il lavoro sempre più faticoso e difficoltoso.
Tuttavia Saro e gli altri cominciarono a picconare di buona lena senza mai lamentarsi e cercando anzi di fare al meglio il proprio lavoro. Ciccio “naschilordi” cominciò a cantare a bassa voce allietando in quel modo i suoi compagni con melodie malinconiche che avevano il merito di accompagnare il lavoro e di distrarre la mente da ciò che si stava facendo. Cantare infatti era l’unico modo che i picconatori avevano per rendere leggermente meno dure le loro condizioni di lavoro. E anche se erano quasi sempre le stesse canzoni, tristi e drammatiche che parlavano di amori perduti, di morte e di disperazione, gli uomini le amavano lo stesso e chi sapeva cantare era sempre molto conteso e richiesto tra le squadre di pirriatura.
Anche Pepeddu u “nivuru” si unì al canto mentre gli altri tre preferirono ascoltare i propri compagni in silenzio, compreso Saro che non aveva mai amato cantare.
Il lavoro proseguì senza sosta per tutta la mattinata. I pirriatura con i loro picconi scalfivano la parete della galleria raccogliendo il materiale estratto, che comprendeva ganga mista a zolfo, in piccoli cumuli al centro della galleria stessa.
Quando il materiale raccolto da ciascun minatore cominciava ad essere consistente, questi chiamava il proprio caruso il quale si avvicinava portando con se la “stiratura” che veniva riempita con il materiale che il padrone aveva accumulato. Il bambino poi, aiutato dal minatore, si metteva sulle spalle la pesante cesta ripiena di quei minerali e cominciava la lunga e difficile salita verso la superficie, che però non vedeva mai, visto che si fermava al secondo snodo delle gallerie dove si trovavano i vagoni che una volta riempiti avrebbero condotto il materiale estratto in superficie molto più agevolmente, spinti a mano dai “carrittera” sugli appositi binari.
Scaricato il materiale nei vagoni, il ragazzino tornava poi dal proprio padrone in attesa di riempire nuovamente la stiratura e fare un nuovo viaggio verso l’alto.
Quando finalmente arrivò la pausa per il pranzo, sia uomini che bambini erano stremati e furono felici di interrompere per un pò il lavoro. Uscirono dallo stretto budello in cui si erano ficcati per picconare le pareti completamente sporchi e interamente grondanti di sudore e si misero nuovamente in piedi sgranchendosi le ossa.
Lasciarono i picconi a presidiare il punto dove stavano scavando mentre Saro non dimenticò di portare con se la truscia con la sua robba.
Si misero quindi in cammino verso l’alto fino ad arrivare allo slargo dove gli uomini avevano lasciato le proprie cose prima di scendere nelle gallerie. In quel punto il caldo era più sopportabile, la luce esterna riusciva a rischiarare leggermente l’ambiente e l’aria riusciva a fluire con maggiore intensità. Inoltre il posto era abbastanza ampio di accoglierli tutti, insieme a quelli delle altre squadre che lentamente confluivano in quel luogo.
Una massa informe di uomini nudi, sporchi e sudati, più simili a bestie da soma che a esseri umani propriamente detti. Tutti piccoli e magri, talmente emaciati e lerci da sembrare più spiriti infernali risaliti dalle viscere della terra che non uomini in carne ed ossa. Erano infatti più ossa che carne, scheletri ambulanti che si trascinavano come vermi nell’oscurità.

Giuseppe Graceffa

Leggi la prima parte del racconto “La Truscia”

Non perdete la terza (ed ultima) parte del prossimo racconto “La Truscia” che sarà pubblicata sabato 29 agosto.

Ecco il calendario delle prossime pubblicazioni:

Sabato 29 agosto: terza (ed ultima) parte del racconto “La Truscia“;

Sabato 5 settembre: prima parte del racconto “Questione di corna“;

Sabato 12 settembre: seconda parte del racconto “Questione di corna“;

Sabato 19 settembre: terza (ed ultima) parte del racconto “Questione di corna“.

Non mancate all’appuntamento!!!

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