Pirandello e Totò Cuffaro. Il Nobel e la malattia dell’umanità
L’esempio più alto, e cioè più propriamente nobile, del pirandellismo è lo stesso Luigi Pirandello. Era il 9 novembre del 1934, e con un telegramma inviato da Per Hallström – segretario permanente dell’Accademia di Svezia – si comunicava allo scrittore agrigentino l’avvenuta assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura “per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte drammatica e teatrale”. In quello stesso giorno la sua casa fu invasa da giornalisti e fotografi, assiepati fra taccuini e flash, turbando la quiete del drammaturgo e dei suoi personaggi. E fu anche quel un piccolo pezzo di teatro, una scena da atto unico surreale, con Pirandello in posa sulla macchina per scrivere mentre batteva su un foglio – come scrive Gaspare Giudice nella sua biografia – una sola esclamazione a lungo ripetuta: “pagliacciate! pagliacciate!”.
E però il premio era irrinunciabile – ebbe il coraggio di rifiutarlo solo Jean-Paul Sarte, nel 1964 -, e a Pirandello fu assegnato il 10 dicembre, esattamente 86 anni fa, con una solenne cerimonia alla presenza del Re di Svezia. Il discorso dello scrittore non è tra quelli più famosi – come lo fu, ad esempio, quello magnifico di William Faulkner nel 1949 -, e forse deve intendersi nella sua brevità proprio il senso più intimo del fastidio di Pirandello per la retorica dei banchetti e delle premiazioni, sciolta fra attestati di stima e promesse di gratitudine.
Nella sua parte centrale, però, il discorso prende corpo a una lucida anamnesi del percorso dello scrittore, delle sue ragioni profonde, perfino delle sue tensioni prelogiche, recitando: “Per riuscire nelle mie fatiche letterarie ho dovuto frequentare la scuola della vita. Questa scuola, inutile per certe menti brillanti, è l’unica cosa che può aiutare una mente come la mia: attenta, concentrata, paziente, inizialmente del tutto simile a quella di un bambino. Uno scolaro docile, se non con gli insegnanti, di sicuro con la vita, uno scolaro che non verrebbe mai meno alla sua totale fede e fiducia in ciò che ha imparato. Questa fede nasce dalla semplicità di fondo della mia natura. Sentivo il bisogno di credere all’apparenza della vita senza alcuna riserva o dubbio. L’attenzione costante e la sincerità assoluta con cui ho imparato e meditato questa lezione hanno palesato un’umiltà, un amore e un rispetto della vita indispensabili per assorbire delusioni amare, esperienze dolorose, ferite terribili, e tutti gli errori dell’innocenza che donano profondità e valore alle nostre esistenze. Tale educazione della mente, conquistata a caro prezzo, mi ha permesso di crescere e, nel contempo, di rimanere me stesso. Evolvendosi, il mio talento più vero mi ha reso del tutto incapace di vivere, come si conviene a un vero artista, capace soltanto di pensieri e di sentimenti: pensieri perché sentivo, e sentimenti perché pensavo. Di fatto, nell’illusione di creare me stesso, ho creato solo quello che sentivo e che riuscivo a credere. Provo gratitudine infinita, gioia, orgoglio al pensiero che questa creazione sia stata ritenuta degna del premio prestigioso con il quale mi onorate. Mi piacerebbe credere che questo premio sia stato conferito non tanto alla perizia dello scrittore, che è sempre irrilevante, quanto alla sincerità umana del mio lavoro.”
La chiusa è straordinaria, con una sorta di tentativo – tutto letterario – proprio all’abdicazione della letterarietà, in favore della “sincerità umana”, laddove l’aggettivazione dell’umanità conta in rapporto di equivalenza con l’idea stessa di sincerità.
Oggi si celebra Pirandello, e mentre lo si fa è notizia dei giornali il ricovero di Totò Cuffaro in ospedale per il Covid. Lo aveva annunciato lui stesso, e pare che nelle ultime ore le sue condizioni si siano aggravate. In questi mesi, i candidi che si sono illusi che la pandemia avrebbe ingentilito lo spirito dell’umanità, si sono trovati sconfitti nelle loro speranze; la verità è che l’uomo, perduto l’equilibrio della socialità, in preda alla paura, si dimostra per quel che veramente è: poco più di una bestia. E i commenti sulla malattia di Totò Cuffaro sono quanto di più spaventoso, inumano e brutale si possa immaginare; l’augurio dei corvi è in sostanza, testualmente, questo: “la natura fa quel che la giustizia umana non riesce a fare”. A difendere l’ex Presidente della Regione, perfino l’Associazione Nazionale Vittime della Mafia, il cui presidente Giuseppe Ciminnisi scrive: “Interventi spietati ai quali è difficile abituarsi quando il disprezzo e l’odio colpiscono una persona malata. Le risposte della maggioranza dei commentatori non diminuiscono la gravità di questi messaggi, e il fatto che talvolta provengano da quella parte della società che predica valori di legalità li rende ancora più preoccupanti. Chi come me e i tanti familiari di vittime di mafia che rappresento ha conosciuto la barbara violenza della mafia, non può tacere dinanzi la violenza delle parole.”
Ecco che torna Pirandello, con il giudizio umano per i suoi personaggi, e con la sincerità che vale più del talento. E come Ciminnisi, che augura una pronta guarigione a Cuffaro, lo faccio anche io, perché la malattia di un uomo è sempre la malattia di tutti, e l’augurio agli altri sia sempre l’augurio a noi stessi. A Totò Cuffaro affinché torni ai suoi impegni, con l’augurio che abbia amici leali e avversari corretti, e a coloro i quali scrivono messaggi di morte, dando fiato alla bocca, nella tristezza di un orizzonte democratico così infelice.
Beniamino Biondi