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Licata, un bel viaggio nella memoria la Collettiva di pittura “I colori del passato”

Si è svolta a Licata sono intervenuto alla cerimonia di apertura della Mostra “I colori del passato” – Collettiva di pittura in memoria di alcuni artisti licatesi scomparsi: Antonino Peritore, Benito Arnone, Cesare Augusto, Felicia Iacopinelli, Francesco Damanti, Giuseppe Fiocco, Giuseppe Gattuso, Lia Sciandrone, Paolo De Caro, Tano Messina, Tullia Fiocco, Vincenzo Gullotti e Vincenzo Incorvaia. Un momento di grande emozione. Un evento organizzato con dovizia di particolari e cura dal Direttore Artistico dell’evento Josè Augusto che ha voluto coinvolgermi in questo viaggio nella memoria attraverso la pittura e che sento di ringraziare per questo invito. Molti degli artisti li ho conosciuti da ragazzo, alcuni li ho intervistati da giovane cronisti. Con altri ancora ero amico di famiglia, o erano miei docenti. Su molti di loro ho scritto in passato per far conoscere la loro bravura e il loro talento.
Dopo i saluti della Vice Sindaca Francesca Platamone è stato Alfredo Amato, Presidente della Pro Loco, a presiedere la serata che ha visto l’intervento del poeta Lorenzo Peritore, poeta, figlio di uno degli artisti scomparsi. La mostra si è aperta giovedì scorso e si concluderà oggi 19 agosto ed è aperta dalle 20.
Nel corso del mio intervento ho cercato di dare un contributo sul valore dell’arte. L’arte esprime il nostro modo di vedere e interpretare il mondo. La nostra anima si immerge negli abissi dei nostri sentimenti, dandoci la possibilità di raccontare quell’universo interiore che spesso non ascoltiamo o non vediamo. Ho provato anche a raccontare quanto erano densi di emozione gli incontri con artisti come Vincenzo Gullotti, Tullia Fiocco, Paolo De Caro, Tano Messina, Cesare Augusto (papà compianto del Direttore Artistico) e Lia Sciandrone, con cui ho avuto contatti diretti.
Tanti i filosofi e i pensatori che hanno visto nell’arte lo strumento per raggiungere le verità nascoste. Non bastano le parole o i pensieri per dare spazio alla propria creatività, ma serve il cuore per esplorare il proprio “io” interiore. L’arte ci mostra quel lato più umano di noi stessi e lo unisce alla realtà.
Dal punto di vista sociologico, l’arte è qualcosa di complesso. Il sociologo deve comprendere gli aspetti storici, economici, sociali di un’opera e deve capire le motivazioni che hanno spinto un’artista a dar vita ad un’opera. Il sociologo si pone diverse domande: come può quest’opera destare l’interesse della collettività?
La politica e la cultura come hanno influenzato le scelte dell’artista?
Il sociologo deve stare attento a come è nata un’opera e a come viene commercializzata, tenendo conto del contesto socio-economico.
Il processo sociale è molto importante per un sociologo e le opere del passato sono fondamentali dal punto di vista umano e culturale. Non si può non analizzare il passato per comprendere il presente.
Oggi, la globalizzazione e i media hanno spettacolarizzato l’arte e appare evidente la ricerca di un ambiente sempre più glamour e alla moda. I collezionisti vanno alla ricerca di quelle opere famose e conosciute per ottenere consenso.
Invece, bisogna far conoscere, per poter valutare al meglio, tutto il mondo delle arti e degli artisti, anche quelli del nostro territorio. Non basta un collezionista ormai omologato a un certo tipo di gusto dettato dalla globalizzazione, attento soprattutto al valore finanziario e speculativo dell’arte.
La globalizzazione ha favorito: Il valore di mercato che dipende dal nome dell’artista, a discapito degli artisti meno conosciuti; la cultura di massa; il mercato “clandestino” che non può essere controllato ufficialmente. Le opere possono essere comprare e vendute, danneggiando le gallerie e sottraendo il monopolio delle vendite.
Le prospettive sono completamente cambiate e stiamo assistendo a quella che viene definita dal sociologo polacco, Zygmunt Bauman, l’era del “consumo, dunque sono”.
Uno dei fenomeni che contraddistinguono l’era moderna è il selfie (fotografia scattata a sé stessi) che ha acutizzato la vetrinizzazione dell’uomo, coinvolto in una spirale di spettacolarizzazione continua.
Una “società dello schermo”, dove qualsiasi momento deve essere immortalato e condiviso sui social network. L’esaltazione delle apparenze che supera la definizione di fotografia e di immagine.
La continua esposizione in vetrina ha cancellato la nostra privacy, perché viviamo ancorati alle fotocamere digitali presenti nei nostri cellulari.
La sessualità e il corpo assumono una completa centralità. Il corpo diventa l’elemento che può creare “appeal” nei confronti delle altre persone. Naturalmente non si tratta di un corpo qualunque, ma deve essere un corpo perfetto e deve possedere certi standard per ottenere gradimento e apprezzamento. L’aspetto più grave è che non siamo in grado di proteggerci e ci prestiamo a quella che viene definita la società “Grande Fratello”.
Nel campo dell’arte si pratica self-branding e personal storytelling. L’artista si promuove, o attua una strategia investigativa, anche attraverso il selfie.
L’artista si è trasformato già da tempo. Una delle prime testimonianze risale al 1972. Franco Vaccari ha presentato alla 36a Biennale d’Arte di Venezia l’opera Esposizione in Tempo Reale n° 4 dove una scritta sul muro – Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio – chiedeva ai visitatori di diventare parte attiva della mostra tramite una Photomatic (macchina per realizzare fototessere), una visione assolutamente collettiva.
Il fenomeno è cresciuto nel XXI secolo e l’artista si è trasformato in un “selfista”. Nel 2013, il National #Selfie Portrait Gallery, progetto ideato e curato Marina Galperina e Kyle Chayka per la Moving Image Art di Londra, ha messo insieme video molto brevi realizzati da 17 artisti internazionali. I due curatori, in un’intervista, dichiararono: “Il progetto rappresenta un meta-commento sul self-brading nell’era digitale. I selfie non sono sempre arte, ma queste opere d’arte sono sicuramente dei selfie”.
Si può citare il progetto Selfies and the New Photography. 50 Artists/50 Selfies: open call voluto da Patrick Lichty nel 2014, o quello programmato a Milano nello stesso anno dal PhotoFestival che, con la mostra City Mobility, ha riservato un’area alla selfiemania.
Negli ultimi anni l’arte del selfie ha avuto molto spazio e notevoli riscontri anche grazie alle piattaforme social.
In questo sistema globalizzato di diffusione dell’arte bisogna riscoprire il senso dell’arte, aprendosi alla conoscenza e alla consapevolezza.
È importante, se non addirittura essenziale, un’educazione all’Arte e alla storia dell’Arte fin dalle scuole dell’infanzia, soprattutto in un paese come il nostro dove la cultura figurativa è parte integrante della nostra storia. L’artista deve tenere presente la società del suo tempo soprattutto in un momento di crisi come questo. La pandemia non è l’unico motivo da cui si è originata questa crisi. Non dobbiamo dimenticare che alle porte dell’Europa è in atto un conflitto e non sappiamo cosa ci riserverà il futuro. I risultati e le conseguenze sono già evidenti sotto ogni punto di vista.
Gli artisti hanno una grande responsabilità e, cosi come ha detto Papa Francesco, sono occhi che guardano e sognano nuove versioni del mondo e sanno osservare ciò che è vicino e ciò che è lontano. Infatti, ha aggiunto il Pontefice, “l’arte vuole agire come coscienza critica della società, togliendo il velo all’ovvietà”.
Ben vengano, allora, iniziative come quella organizzata a Licata. Occasioni come queste sono necessarie per riscoprire i valori e le virtù degli artisti che hanno segnato la storia della nostra terra e per scuotere le coscienze. Ci vuole un’alleanza a favore della vita umana, della giustizia sociale e della nostra casa comune per sentirci tutti fratelli e gli artisti sanno come comunicare la profondità umana dell’umanità. Concludendo il mio intervento ho espresso il desiderio che questi artisti locali possano essere presentati alle nuove generazioni nelle scuole per lasciare una traccia indelebile della loro arte.

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