La nostra società in questi ultimi anni ha mostrato degli aspetti difficili da accettare e da comprendere. L’Istat, qualche tempo, fa ci ha ricordato che gli italiani sono affetti da cattivismo. Insieme al “cattivismo” troviamo tanti altri “ismi” come ad esempio l’egoismo diffuso che si è palesato in un momento di difficoltà come quello della pandemia.
Conoscere quello che sta avvenendo certamente non ci consola, ma bisogna parlarne per riflettere e trovare delle soluzioni.
Le cronache di questi giorni riportano delitti e uccisioni che si consumano anche all’interno dello stesso nucleo famigliare. Uccidere un altro essere umano significa non dare valore alla vita che per noi cattolici cristiani è un dono di Dio. L’idea che chi spara, stermina, distrugge, possa poi avere, un posto nella storia, sta passando. E questo è molto preoccupante. L’idea che per avere qualcosa di cui si ha un presunto diritto, ci si possa fare giustizia da soli, non è accettabile in uno Stato di diritto. Ma dopo tanti episodi tremendi forse dovremmo seriamente interrogarci su come stiamo cambiando. Andando oltre la cronaca, il dolore, il cordoglio e il lutto cittadino. Ormai dimentichiamo le stragi che avvengono quotidianamente e aspettiamo le altre, parlando dei valori che non esistono più. Sinceramente è inquietante.
I social veicolano questi crimini e ognuno può commentare e dare il proprio giudizio. Molto spesso quello che manca è il rispetto per gli altri e per il valore della vita. Ecco, perché ancora oggi bisogna parlare di uomini come Falcone, Borsellino, Caponnetto e tanti altri che si sono spesi per la società, perdendo la loro stessa vita. Uomini che sono stati esempi autorevoli dell’onestà e della rettitudine. In questa nostra società è difficile trovare esempi di responsabilità, di etica e di morale.
Diceva il Giudice Giovanni Falcone: “Perché una società vada bene, basta che ognuno faccia il suo dovere”. Questa frase per me importantissima per spiegare quello che rappresenta per me la legalità e il senso della legalità.
Chissà in quale cassetto sarà chiusa l’Agenda Rossa di Paolo Borsellino. Qualcuno l’ha conservata bene o magari ha deciso di distruggerla per cancellare un pezzo di storia della Sicilia e dell’Italia. L’Italia piange ancora oggi i suoi eroi, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. S’indigna, reagisce, vuole giustizia e verità su quegli anni bui e terribili. Oggi rimangono misteri, sospetti e depistaggi. Ma forse nemmeno il Giudice Paolo Borsellino, avrebbe voglia di perdere la speranza. Di pensare che la sua amata terra, la Sicilia, un giorno non sarà diversa. Sono passati 30 anni dalla strage di via D’Amelio. Trenta lunghi anni in cui ognuno di noi conserva il ricordo terribile di quei momenti, impresso nella nostra memoria. Quel pomeriggio assolato di Palermo in cui un’autobomba è esplosa tra le strade deserte uccidendo il magistrato i cinque uomini della sua scorta, Claudio Traina, Agostino Catalano, Walter Cosina, Emanuela Loi e Vincenzo Li Muli. Il giudice Paolo Borsellino era andato in Via D’Amelio a Palermo a prendere la sua mamma per accompagnarla dal medico. Alle 16,58 una fortissima esplosione uccide persone, abbatte case, fa saltare in aria auto.
L’obiettivo: uccidere uno dei simboli della lotta alla mafia. Più volte ho ricordato, anche durante interventi in convegni o conferenze, sia in Sicilia che in altre parti d’Italia che ho avuto il privilegio di intervistare il giudice Paolo Borsellino per un quotidiano regionale il primo dicembre del 1991. Dalla Procura di Marsala stava per tornare a Palermo. Oggi, come spesso mi è capitato da quando non c’è più e sento parlare di lui, risento la sua voce. Quel tono pacato con cui riusciva a pronunciare piccole e grandi verità.
Fui diretto quella volta. Gli chiesi se aveva paura di tornare a Palermo. La sua risposta fu onesta e sincera, come lo è stata la sua straordinaria vita. Mi disse di si. Che la paura era un sentimento umano. “È normale che esista la paura, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti”.
È un episodio che mi ha segnato perché ci è capitato tante volte di avere paura, ma è difficile immaginare che un uomo come Paolo Borsellino, nonostante la paura, continuasse la sua battaglia contro il male. Un’intervista tra quelle che non dimenticherò mai nella mia esistenza. Incancellabile. Piena di vita, anche se annunciava la morte.
Le sue parole non possono e non devono essere dimenticate: “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”. La paura forse per Paolo Borsellino era anche la quasi certezza che l’avrebbero eliminato: “Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”. Vivere e lottare sapendo che il destino era segnato. Venticinque anni dopo ancora ci sono misteri che non sono risolti, legati alla morte di Paolo Borsellino e che mai si risolveranno.
C’è un’altra intervista che mi porto dentro. Quella fatta al giudice Antonino Caponnetto, capo del Pool Antimafia. Mi piacevano tantissimo i messaggi che era capace di lanciare ai giovani: “Ragazzi godetevi la vita, innamoratevi, siate felici ma diventate partigiani di questa nuova resistenza, la resistenza dei valori, la resistenza degli ideali. Non abbiate mai paura di pensare, di denunciare e di agire da uomini liberi e consapevoli”.
Ma sulla tragica uccisione del giudice Borsellino aveva fatto dichiarazioni molto precise. Cercato risposte che non sono arrivate: “Ancora oggi aspetto di sapere chi fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si sia proceduto disciplinarmente nei suoi confronti e con quali conseguenze”.
Mi piacerebbe oggi, con la maturità e l’esperienza acquisita, incontrare ancora Paolo Borsellino, parlare con lui e chiedergli un giudizio sulla nostra Sicilia. Mi piacerebbe riportare un suo pensiero su una terra dove ogni giorno sbarcano disperati. Una terra che non ha superato il complesso di essere Sud del Sud. Una terra che alterna la voglia di riscattarsi e di costruire, al servilismo più sfrenato e alla capacità di demolire. Forse risponderebbe sorridendo: “la Sicilia un giorno sarà bellissima”. E detto da lui non stenteremmo a crederci.
In uno dei miei articoli scientifici: “La nuova narrazione degli arresti di mafia: le tecnologie per documentare le attività investigative” ho analizzato molti degli elementi importanti che ci fanno riflettere ancora oggi su quanto accaduto negli anni Ottanta e Novanta.
Ancora oggi si ha la sensazione di vivere agli inizi degli anni ’80. Le mafie che tessono reti, uccidono, cospirano, cercano accordi con la politica e le imprese, vivono cercando disponibilità preziose per continuare la loro opera distruttrice della società. Magistrati e giudici che hanno cercato di operare, ma sono rimasti soli e sono stati uccisi.
Oggi, è vero, duri colpi sono stati inferti alle mafie, in quegli anni ’80. Nel frattempo le mafie hanno proliferato e cambiato pelle, niente più coppole e lupare, ma nuovi sistemi di comunicazione.
Si assiste in tal senso alla contrapposizione tra un’informazione che non riflette i dati reali sulla malavita e che si cristallizza intorno alla costruzione di un “romanzo criminale”, privilegiando i reati comuni che generano una percezione di paura e insicurezza, a fronte di dati che mostrano invece una flessione di questo tipo di reati, mentre appare sempre più debole la percezione dei rischi connessi alla criminalità organizzata e alla mafia. Per rendere ancora più esplicite le conseguenze della bassa percezione della pericolosità della mafia, la relazione della D.I.A. sottolinea inoltre come nonostante la forte azione repressiva dello Stato le mafie continuano ad esercitare un grande potere di attrazione, non solo sulle fasce deboli della popolazione, ma anche su imprenditori e liberi professionisti e, dato ancora più allarmante, sui giovani: negli ultimi cinque anni non solo si sono registrati casi di “mafiosi” con un’età tra i 14 e i 18 anni, ma gli appartenenti alle cosche tra i 18 e i 40 anni hanno raggiunto numeri quasi uguali a quelli della fascia tra i 40 e i 65 anni.
Si sta delineando una nuova dimensione della criminalità organizzata, capace di definire strategie finanziarie a livello globale, di mantenere il controllo del territorio e, dato più rilevante, di utilizzare i nuovi canali di comunicazione sfruttando i linguaggi giovanili o asservendoli ai propri fini.
Le nuove leve mafiose salgono sempre più spesso alla ribalta della cronaca e soprattutto non temono di utilizzare i canali social.
Ho avuto modo di appurare in attività di ricerche esaminando spesso come Cosa Nostra sia passata con disinvoltura dai pizzini alle piattaforme social e al web.
La percezione distorta del reale viene, infatti, enfatizzata dai mezzi di comunicazione, che insistono sui particolari, su quel “feticismo del dettaglio”, che accresce la curiosità, tanto che sempre più spesso i casi di cronaca nera diventano sempre più eventi televisivi, per mezzo dei quali alzare l’audience grazie alla morbosa cura dei dettagli angoscianti.
Oggi è in atto una vera e propria mutazione antropologica del mafioso, l’invisibilità, la segretezza si combinano con l’esibizione sui social dove la vita criminale diventa uno show e i criminali dei social influencer, con profili connessi con migliaia di amicizie e dei post che generano un fortissimo engagement.
Una contaminazione che crea confusione, che mette insieme aspetti diversi non sempre collegabili e che induce ad una visione dove l’elemento mafioso, rappresentato attraverso i social assume dei contorni sfuocati che agevolano una percezione distorta e inducono a comportamenti e azioni che alimentano le organizzazioni mafiose.
E la nuova criminalità organizzata che non ha paura della ribalta, che si esibisce sui social trova uno spazio nel quale confondere la linea di confine tra lecito e illecito.
Questo rappresenta tutti i limiti di un sistema mediatico che invece di veicolare una rappresentazione in grado di far crescere un’adeguata coscienza civica, lasciano che l’opacità e un linguaggio distorsivo trovino spazio. Ciò rappresenta con tutta evidenza una grande criticità in grado di modificare in profondo la società. Una mafia pronta anche ad imparare i processi di comunicazione per far vincere il male sul bene.
Cosa nostra è cambiata, non ha vinto ma non è stata sconfitta. Eppure come in quegli anni ’80 si diceva che la mafia non esisteva, oggi ci sentiamo dire che è sconfitta. Pochi quelli che parlano della nuova mafia, tanti quelli che ancora dicono che Cosa nostra esiste solo nella fantasia di qualcuno che fa antimafia per far carriera, per avere successo, e dicendo così si confonde la gente. Purtroppo, le vittime della stragi sono ancora qui tra noi a chiederci Giustizia. Falcone e Borsellino hanno immolato le loro esistenze e sacrificato così i loro affetti più cari. Le fiction sono diventate realtà. Anzi la realtà ha superato ogni finzione scenografica.
Questo avviene perché viviamo il nostro quotidiano in una dimensione spazio-tempo che non controlliamo più. Siamo passati da vivere e conoscere l’universo al Metaverso. Crediamo di vivere bene in non luoghi che ci sembrano luoghi.
Un mondo del tutto nuovo in cui avvengono episodi di violenza virtuale. Il Metaverso presenta degli aspetti che vanno ben regolati e controllati per porre rimedio ai tanti problemi presenti. Il rischio è quello che si verifichino episodi di cyber bullismo. E la nostra vita non scorre ma corre. Affermava Mahatma Ghandi: “nella vita c’è di più che aumentarne la velocità”. La nostra corsa quotidiana non ci fa rispettare neppure noi stessi.
Corriamo per diventare potenti, ricchi, per superare gli altri rinunciando a vivere e a far vivere. Steve Jobs ha ripetuto più volte: “essere l’uomo più ricco del cimitero non ha importanza. Ciò che conta è andare a letto la sera sapendo di aver fatto qualcosa di grande”. Il sociologo Zygmunt Bauman, uno dei più grandi pensatori al mondo, che ho avuto il privilegio di conoscere, e di cui conosco a fondo il suo pensiero sulla società liquida, ha scritto che “la vita è un’opera d’arte”. Anche per i più piccoli, anche per noi che a volte ce ne dimentichiamo. Il nostro Sommo Pontefice Francesco lo ha sempre affermato: “Il valore di una persona non dipende più dal ruolo che ricopre, dal successo che ha, dal lavoro che svolge, dai soldi in banca; no, la grandezza e la riuscita, agli occhi di Dio, hanno un metro diverso: si misurano sul servizio. Non su quello che si ha, ma su quello che si dà”. Questo dobbiamo insegnare ai più piccoli raggiungendoli anche nel loro universo parallelo e mostrando loro l’importanza di vivere in una società civile, dove non c’è posto per la mafia e i suoi crimini.
Francesco Pira