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Il Castello, la piazza e il paese di Favara sono di origine Federiciana – di Filippo Sciara

FavaraSulle origini sveve del castello di Favara
di Filippo Sciara
Nel 1972, Giuseppe Spatrisano, pubblicava a Palermo la sua preziosa opera Lo Steri di Palermo e l’architettura siciliana del Trecento, ancora oggi considerata dagli studiosi la più valida analisi storico-architettonica del XIV secolo in Sicilia e punto di riferimento obbligato per chiunque intenda studiare l’architettura oggi detta chiaromantana.

Relativamente al palazzo medievale di Favara, più comunemente detto castello egli, a pag. 195, riferisce: «Riteniamo…che esso possegga più pertinenti caratteri di palazzo per quella analogia tipologica che largamente può istituirsi con i palacia o solacia fatti costruire da Federico di Svevia in Sicilia e in Puglia…il richiamo alle costruzioni create per il riposo e lo svago dell’imperatore si giustifica per la chiara disposizione dell’impianto, così congeniale alle manifestazioni architettoniche dell’epoca, tanto da non sembrare azzardato il sospetto che il primo nucleo del palazzo risalga al periodo federiciano o sia di poco posteriore».

Prima dello Spatrisano, nel 1966, Vincenzo Capitano, nel suo libro Il palazzo dei Chiaramonte a Favara, sulla scorta di un documento del 1281, in cui si riferisce della presenza in Sicilia di un castrum Favare, a pag. 20 scrive: «La notizia… ci dà modo di accertare la presenza di un nucleo fortificato, la cui esistenza si può far risalire almeno a Federico II di Svevia». A pag. 25 riferisce: «Attorno al castello dovettero esistere altre cortine difensive ed altri nuclei fortificati, ricollegabili al periodo svevo-angioino» e a pag. 26 riporta: « Avevamo già osservato in precedenza che esiste un rapporto di derivazione diretta del castello di Favara dal tipo palatium svevo».

Dobbiamo ricordare che, nel periodo precedente, dal XVI secolo alla prima metà del 900, quasi tutti gli autori siciliani , tra i quali ricordiamo Fazello, Pirro, Inveges, Caetani, Amico, Gravina e Valenti, concordemente affermano che il castello di Favara è stato costruito dai Chiaromonte, nella seconda metà del XIII secolo, ma senza alcuna prova documentale.

Noi, convinti della derivazione federiciana del palazzo di Favara, ci siamo addentrati nella ricerca delle origini, ormai da parecchi anni, rilevando delle interessanti scoperte. Precisiamo che il nostro primo studio risale al 1977, quando abbiamo pubblicato Il castello dei Chiaramonte, nel giornale Il Raggio, Favara 15 agosto, sostenendo già allora, senza avere potuto leggere le pubblicazioni dello Spatrisano e del Capitano (all’epoca avevamo 18 anni e frequentavamo solo la biblioteca comunale barone Mendola, dove mancavano tali opere) l’origine sveva del castello di Favara. Venti anni dopo, nel 1997, nel nostro libro Favara, guida storica e artistica, abbiamo reso note le scoperte da noi effettuate che ci hanno indotto a ritenere il palazzo medievale di Favara una residenza di caccia dell’imperatore Federico II di Svevia. La nostra tesi federiciana è stata considerata valida dagli studiosi che si occupano di storia dei castelli di Sicilia e nel 1999, la scheda storica sul castello di Favara, da noi scritta, è stata inserita nel libro Nobili pietre, storia e architettura dei castelli siciliani, a cura di F. Maurici, L. Sciascia, R. Santoro e G. Sommariva. Nel 2001, il Centro Regionale per l’inventario , la catalogazione e la documentazione dei Beni Culturali e Ambientali, considerando valida la nostra tesi federiciana, ci ha incaricato di scrivere una scheda storica sul castello di Favara, che è stata inserita alla pag. 119, nel libro Castelli medievali di Sicilia. Guida agli itinerari castellani dell’isola, pubblicato dalla Regione Sicilia. La nostra tesi federiciana è stata condivisa, negli ultimi anni, da diversi autori che si sono occupati dei castelli di Sicilia, tra i quali ricordiamo Renata Salvarani che, nel suo libro Dimore di caccia in Sicilia, pubblicato a Bologna nel 1999, ha condiviso in pieno la nostra tesi federiciana, riportata alle pp. 164-165 e Amelia Pantano che ha scritto la scheda sul castello di Favara, inserita nel libro Castelli di Sicilia. Città e fortificazioni, a cura di F. Militello e R. Santoro, Palermo 2006.

Abbiamo ripreso la tesi federiciana, nel 2014, nell’ambito del convegno internazionale di studi Nelle terre dei Normanni. La Sicilia tra Ruggero I e Federico II, pubblicato nel 2015, al quale abbiamo partecipato con una relazione dal titolo L’insediamento arabo-normanno e svevo nel territorio di Favara presso Agrigento, che è stata apprezzata molto da tutti i relatori partecipanti. Il curatore delle conclusioni, Ferdinando Maurici, il più valido studioso di castelli medievali di Sicilia, oggi vivente, ha così commentato il nostro intervento: « Nell’agrigentino, in territorio di Favara, rimaniamo con l’intervento di Filippo Sciara, veterinario e storico medievalista, dedicato a l’insediamento arabo-normanno e svevo nel territorio di Favara presso Agrigento … Il lungo e dettagliatissimo catalogo dei di età islamica e normanna nel territorio favarese è offerto sulla base di una profonda e capillare conoscenza del territorio, dovuta anche all’attività professionale dello Sciara, e sulla scorta della documentazione scritta che l’autore manovra con maestria da professionista anche della ricerca storica. Il contributo si segnala per la estrema puntualità e per la ricchissima messe di dati offerti (riassunti in una utilissima carta), terminando con una proposta destinata a far discutere e ad incrementare quindi il dibattito scientifico sull’eccezionale manufatto architettonico costituito dal palatium di Favara: la sua identificazione con il casale apud Cunianum già sede di un sollatium federiciano».

Fatta questa lunga premessa, della quale ci scusiamo con i lettori, riportiamo adesso l dati storici sui quali si basa la nostra tesi federiciana. Molti sono i dati che ci hanno indotto a ritenere che il palazzo medievale di Favara, più comunemente detto castello, venne edificato per volere di Federico II imperatore, come residenza di caccia. Nella sua forma regolare quadrata di circa 31 m di lato e nel suo schema d’impianto con il recinto fortificato, richiama, come modulo costruttivo, alcuni edifici di Federico II quali la habitatio di Burgimilluso, oggi torre di Menfi e il castello di Gela, oggi quasi scomparso. Nel suo nucleo centrale di circa 31 m di lato con corte interna pure quadrata di circa 12,50 m di lato, richiama in maniera evidente alcune costruzioni di caccia dell’imperatore in Italia meridionale, come il palazzo di Lucubante, da noi scoperto presso Apice, un quadrato di circa 28 m di lato con corte interna pure quadrata di circa 13 m di lato, il palazzo di Lucera, un quadrato di circa 34 m di lato con corte interna pure quadrata di circa 14 m di lato, la torre di Monteserico e la torre della Cisterna, da noi scoperta, che presentano lo stesso rapporto metrologico. Rispettivamente, Monteserico è una torre quadrata di circa 13 m di lato inserita in un recinto fortificato quadrato di circa 28 m di lato e Cisterna è una torre quadrata di circa 12 m di lato inserita in un recinto fortificato quadrato di circa 32 m di lato. Segnaliamo all’interno del palazzo medievale di Favara alcuni stemmi da noi recentemente scoperti, con i segni araldici propri di Federico II, cioè l’aquila imperiale che con gli artigli ghermisce la lepre.

Occorre inoltre considerare il primitivo impianto urbanistico medievale di Favara (300 m x 400 m), di forma romboide, caratterizzato da una crux viarum principale e da una grandiosa piazza centrale, come progetto indipendente rispetto al resto dell’aggregato urbano e totalmente subordinato al castello, che per quanto riguarda i moduli costruttivi, ricalca in maniera sorprendente quelli presenti nella città di Gela (300 m x 800 m), di sicura matrice federiciana. La piazza di Favara di 58 m x 134 m, ripete la forma e le dimensioni di quella di Gela di 65 m x 120 m, sebbene quest’ultima oggi si presenta rimpicciolita per l’inclusione della chiesa di santa Maria della Platea, costruita posteriormente, forse nel 1282. Posta in posizione obliqua, rispetto al rettangolo della piazza, la chiesa ne altera il primitivo disegno regolare. Il modulo di circa 50 m, adoperato a Gela, ma anche ad Augusta (300 m x 800 m), altra Terra fondata da Federico II, come lato minore degli isolati (circa 50 m x 150 m) e per distanziare le diverse strade parallele, che con una trama ortogonale ne caratterizzano l’impianto urbanistico, lo ritroviamo anche a Favara dove è presente sempre una trama ortogonale con strade parallele, ma con isolati più piccoli di circa 50 m x 50 m, dettati forse dalla piccola forma romboide di 300 m x 400 m, che rispetto a quella rettangolare allungata di Gela e Augusta, non consentiva la formazione di grandi isolati.

Significativa è la presenza di una contrada, del feudo Pioppitello, oggi limitrofa all’aggregato urbano, che nel 1748 veniva ancora detta Rocca dell’Imperatore. Nel documento leggiamo che Onofrio Zuppardo di Favara dichiara di: «tenere et possidere tumulos sex terrarum utilium sitis et positis in hoc statu fabarie in pheudo nominato lo Chiuppitello contrata nominata della Rocca dell’Imperatore confinanti cum terris huius statu et alijs confinibus». Rilevante si pone anche l’esistenza nei secoli XVI e XVII, nel feudo di Favara, alla periferia Ovest dell’aggregato urbano medievale, del toponimo Sollazzo, termine con il quale, nel periodo federiciano venivano indicate le dimore di caccia. Ricordiamo un documento del 12 gennaio 1576, in cui si riferisce che «Josephi Milioto Fabarie…concessit et concedit venerabili ecclesie sancti marie Itrie venerabili ecclesie sancti Rocci huius terre Fabarie … tuminos quatuor terrarum scilicet tumminos duos pro qualibet ecclesia exsistentis in feudo huius terre et in contrata dello sulazo confinatam» e un altro del 1595 , in cui si legge «clausura terrarum … posita in pheudo eiusdem seu statu fabarie et contrata dello solazzo nuncupata» e un altro ancora del 1607, in cui si riferisce che «Mastro Disiato Sinatra de la cità di Montilione ma habitante in questa terra della Favara tiene una vigna consistenti in migliara cinque con tummina dui di terra scapula esistente in lo fegho di la Favara et nella contrata della grutta dello Solazzo». Una contrada Grotta è ancora oggi riscontrabile in pieno centro storico, confinante con la periferia Ovest dell’impianto medievale, che nel 1838 riporta una via Grotta, ancora oggi presente. Il toponimo sollazzo lo riscontriamo anche a Sud, nell’ex feudo Burraiti, vicinissimo alla riserva di caccia imperiale flomaria Burraido o foresta regia Miseti, come testimonia un documento del 1922 che riporta il toponimo Piano di Sollazzo, e a Est di Favara, nell’ex feudo Poggio di Conte, dove ancora oggi è presente la contrada Sollazzo, documentata già nel 1870.
È importante rilevare che a Sud del territorio di Favara, confinante con il feudo Burraiti, nel XIII secolo è esistita una riserva di caccia reale detta nei documenti ufficiali flomaria Burraido e foresta regia miseti, appartenuta a Federico II imperatore a al figlio Manfredi. La riserva di caccia imperiale di Federico II, grazie a un importante documento del 1305, è totalmente rintracciabile nei suoi confini territoriali, di cui ricordiamo quello occidentale che coincideva con l’attuale corso del fiume San Leone e del vallone San Biagio, quello orientale con il vallone Mintina, ancora oggi detto tale, che scorre a Est di Monte Grande. Il limite meridionale era dato dalla spiaggia del mare Mediterraneo, che andava dalla foce del fiume San Leone fino allo sbocco a mare del ricordato vallone Mintina. IL confine settentrionale era rappresentato da diverse creste di monti tra cui i monti Miseti e Mocerini, la via pubblica che da Agrigento portava a Licata e un tratto del fiume Burraiti. Quest’ultimo, che costituisce l’attuale confine Sud del territorio di Favara, viene riportato in un documento angioino del 1278 e ancora del 1306 – 1307, dove sono elencate tutte le riserve di caccia in Sicilia appartenute a Federico II imperatore «fines debitos et stabilitos tempore quondam Frederici imperatoris in ipsis defensis seu forestis», rispettivamente, con il toponimo flomaria Burraido e Flomaria Morrayde che indicava una riserva di caccia imperiale corrispondente, naturalmente, alla foresta regia Miseti sopra descritta.

Questa riserva, assieme a quelle presenti presso Sciacca e Licata, sempre appartenute a Federico II, vengono ricordate dallo stesso, in un documento del 1239, sebbene non vengono riportati i toponimi ufficiali con le quali erano conosciute. L’imperatore, con una lettera diretta ad justiciarum Siciliae ultra flumen Salsum, nella persona di Roggerio de Amicis, ordina di far proteggere le riserve di caccia, poste nelle parti di Agrigento, Sciacca e Licata: «Quod vero significasti fideles nostros ipsarum partium habere penuriam aratrorum propter loca defensarum nostrarum in quibus non audent incidere, propter quod bonum esse scripsisti ut certius locus aliquis statueretur eis pro incidentis aratris, ex quo nulla defensis nostris lesio inferretur, placuisset nobis et mandavissemus hoc fieri, si distincte locum ipsum et nominatim nostro culmini nunciasses». Il termine defensa, al pari di foresta e parco, indicava delle riserve di caccia reali nel regno di Sicilia, nel periodo Normanno – Svevo.

Nel documento del 1305 si riferisce che la foresta di caccia detta Miseti è appartenuta a Federico II imperatore e al figlio Manfredi: «forestary, qui pro tempore fuerunt, tempore bonae memoriae quondam imperatoris Friderici, quondam regis Manfredi, exercuerunt et procuraverunt praedictam Forestam, non permittendo ibidem incidere ligna, nec intrare cum aucubus vel cum canibus». Nello stesso documento, un altro particolare importante attira la nostra attenzione. In esso con riferimento al conte Manfredi Chiaromonte si riferisce : «dictus dominus comes tenuit et possedit et tenet et possidet Forestam regiam, quae fuit et est de demanio regio, ex concessione sibi facta per majestatem regiam de Foresta et solacijs regys, racione officy senescalciae, quae est in territorio Agrigenti, subscriptis finibus limitata». Questo passo del documento testimonia che alla riserva di caccia, detta foresta regia Miseti, erano affiancati dei sollazzi reali, che nel 1305 erano in possesso di Manfredi Chiaromonte. Il termine latino solacium o solatium, che aveva un significato di sollievo, consolazione, compenso, rifugio, nel periodo Svevo diveniva sinonimo di divertimento venatorio e loca solaciorum indicavano le residenze di caccia dell’imperatore Federico II come ricordato sopra. In verità, nel periodo federiciano, il termine assumeva un significato più ampio e per loca solatiorum si intendevano quelle aree dove oltre alle dimore di caccia erano presenti anche sorgenti, peschiere, laghetti artificiali, giardini, vigneti, un paesaggio naturale, cioè, creato secondo le esigenze di amoenitas per l’uomo. I loca solatiorum, ubicati in genere in zone panoramiche, in prossimità di sorgenti d’acqua, erano sempre affiancati da riserve di caccia reali fossero essi parchi foreste o difese.

Importante si pone un documento del 17 novembre 1239, con il quale l’imperatore ordinava a Ruggero de Amicis, di fare custodire le riserve di caccia presso Agrigento, Sciacca e Licata, ma anche di fare costruire tre residenze venatorie nel territorio agrigentino : « apud Burgimill ad opus nostrum tantum habitatio fieret super fontem magnum qui ibi est, et inter Saccam et Agrigentum in flumine Sancti Stephani prope mare per miliarium casale fieret ex hominibus Arcudachii et Andranii, et etiam inter Agrigentum et Licatam apud Cunianum casale aliud fieret, cum et ad nostra solatia et ad curie nostre commoda pervenire deberent, de eis per predictum quondam justiciarum nichil extitit ordinatum; volumus et mandamus ut ea fieri facias in locis ipsis, sicut melius videris debere nostro culmini complacere». La conferma che l’ordine di Federico II sia stato eseguito, circa la costruzione di questi sollazzi nell’agrigentino, la ricaviamo, oltre che dal ricordato documento del 1305 , da un altro documento di re Giacomo di Sicilia, in cui si riferisce della presenza di sollazzi reali, oltre che di riserve di caccia, nella Valle di Agrigento. Questi in un documento del 25 febbraio 1288, ordina a Riccardo de Passaneto, Giustiziere della Valle di Agrigento, di pubblicare, nelle terre di sua giurisdizione, un bando per il divieto di caccia ai daini ed altri animali, nelle foreste, defense e sollazzi reali, da maggio a luglio, tanto con le reti che con i cani: «per terras et loca iurisdicionis tue, ex parte nostre celsitudinis, sub certa pena pluries inhibeas et iniungas quod nullus, cuiscumque condicionis et status existat, in forestis, defensis et solaciis nostris iurisdicionis tue ad filum, seu cum canibus, vel alio quocumque modo, ad daynos et alia eciam animalia aliquatenus venari presumat». Lo stesso bando veniva divulgato il 18 marzo 1288, dal baiulo Riccardo de Orlando, nella terra di Sciacca.

Di grande rilievo si pone infine il rinvenimento, negli sterri provenienti da uno scavo in prossimità del recinto fortificato del castello di Favara per la nuova fognatura, nel 2010, di un frammento di protomaiolica del periodo Svevo che per le caratteristiche formali, una serpentina in bruno manganese affiancata da due linee rette e verticali in verde ramina, su superficie smaltata, richiama in maniera molto evidente la decorazione presente in un bacino di protomaiolica pugliese (qui le linee verticali sono di colore blu, invece che verdi ), databile tra la fine del XII e la prima metà del XIII secolo, forse un prodotto brindisino, che era collocato nel campanile di san Paolo all’Orto, nella città di Pisa e oggi ivi conservato al museo nazionale di san Matteo. Questo motivo decorativo lo ritroviamo anche nei prodotti ceramici ritrovati a Segesta, Castello di Terra a Trapani e Castello san Pietro a Palermo, di importazione campana, con decorazione detta spiral ware, dove spesso, oltre alle spirali in bruno manganese, troviamo interposta la serpentina in bruno manganese delimitata da due linee rette e verticali in verde ramina, con una datazione, sempre tra la fine del XII e la prima metà del XIII secolo.

Dagli sterri sono emersi anche pochi frammenti in invetriata monocroma verde, di bacini emisferici con piede ad anello, alcuni con breve tesa, altri decorati da una linea in bruno manganese , riferibili al XII secolo. Non possiamo però escludere che questi frammenti possono essere del periodo Svevo, alla luce di quanto emerso a Monte Jato, dove in piena età federiciana continuavano ad usarsi ceramiche in invetriata monocroma verde di tradizione normanna. Sappiamo che nella Sicilia occidentale, nel periodo Svevo, la ceramica invetriata monocroma verde, di tradizione normanna, era di largo uso, mentre la protomaiolica era molto rara. Dagli sterri sono usciti fuori pure frammenti di ceramica, cosiddetta araldica e policroma riferibile al XIV secolo e frammenti di ceramica a lustro metallico del XV secolo, di importazione ispanica, per la presenza a Favara della famiglia Perapertusa, che era arrivata dalla Catalogna. Tutti questi reperti verranno esposti nelle sale del castello di Favara, quando verrà realizzato, all’interno, il museo medievale.

Alla luce di tutto questo, siamo del parere che Favara con il suo palazzo medievale può identificarsi con il casale apud Cunianum (…) ad nostra solatia et nostre cure commoda pervenire deberent, cioè una grande residenza venatoria che Federico II, nel 1239, ordinava di costruire tra Agrigento e Licata. Il ricordo di Cuniano ricorre in un documento del 1290, in cui si ha notizia di un certo Joannes de Cuniano, habitator Castrinovi. Nel periodo Svevo, la presenza di un luogo abitato col nome Favara, nel territorio agrigentino, è suggerita da un certo Homodeus de Favara che in data 20 giugno 1260, partecipa, come testimone, in una causa tra la Chiesa di Agrigento e il monastero di san Giovanni degli Eremiti di Palermo, per il possesso della chiesa di santa Maria di Rifesi. Il casale Fabariae, presente nel nostro territorio nel 1299, è l’unico menzionato nelle fonti del XIII secolo, per il territorio agrigentino. Di grande rilievo si pone infine un documento della cancelleria angioina, lo statutum castrorum regiarum Sicilie, del 3 aprile 1281, che riporta tutti i castelli del demanio regio presenti in Sicilia ed ereditati dal periodo Svevo. Nella Sicilia ultra flumen Salsum, interposto tra i castelli di Sciacca, Agrigento e Licata troviamo il Castrum Favare custoditur per castellanum militem non habentem terram in regno, che si identifica con il nostro castello medievale. Importante è il toponimo via Reale, strada che partendo in prossimità del castello di Favara si porta a Sud, molto probabilmente verso la foresta di caccia Flomaria Burraido già ricordata. Precisiamo che nel periodo Angioino, dal 1267 al 1382, in Sicilia non risulta costruito ex novo nessun castello reale. Con la guerra dei Vespri siciliani, iniziata nel 1282, il conte Manfredi I Chiaromonte, si impossessò, come abbiamo già visto sopra, della foresta regia Miseti e del sollazzo reale ad essa pertinente, cioè il nostro palazzo medievale. Fu in tale occasione che Favara entrò nell’orbita dei possedimenti dei Chiaromonte e vi rimase fino al 1392.

Questa nostra ricerca storica, con la tesi dell’origine federiciana del castello di Favara, è stata recentemente definita, da Carmelo Antinoro, una colossale baggianata e le nostre argomentazioni frutto di farneticazioni. Egli, nel gruppo Il comitato della pendola e del cucchiaio di Favara di facebook, ha scritto: «Il riferimento a Federico II di Svevia è una colossale baggianata semplicemente perché nulla ha a che fare con Favara e la piazza…è pura farneticazione». Rileviamo che l’Antinoro nel suo libro sul castello di Favara, alla pagina 73, contraddicendosi in maniera clamorosa, ha scritto: «Non è da escludere che l’impianto della cinta muraria, con relativa torretta, sia stata realizzato prima del castello e probabilmente in epoca sveva». Il suo riferimento al periodo Svevo, senza alcuna prova, non è una colossale baggianata? Ma chi è lui, che senza avere nessun titolo nel campo degli studi del periodo Svevo, si permette di fare queste pesantissime e offensive affermazioni nei confronti dei nostri studi e della nostra persona ? Se non ha mai partecipato ad un convegno di Studi federiciani e non ha mai pubblicato nessuna ricerca storica sul periodo Svevo, come può fare simili ingiustificate illazioni ? Se il suo libro sul castello di Favara, frutto di pesante opera di plagio e di grandi contraddizioni storiche ( si veda il nostro articolo, Sui restauri del castello di Favara, prive di significato le risposte di C. Antinoro che ci accusa di improvvisazione storica, in Kouros, dicembre 2007), non ha avuto alcuna fortuna presso gli studiosi di castelli medievali di Sicilia, al punto che non viene mai citato ed inserito in bibliografia, egli non può, per invidia o vendetta, scagliarsi contro di noi, che, al contrario di lui, riscuotiamo successo e stima tra i ricercatori di storia medievale e siamo continuamente citati negli studi e invitati come relatore a numerosi convegni regionali, nazionali e internazionali. Come mai il Centro Regionale per l’inventario la Catalogazione e la Documentazione dei Beni Culturali e Ambientali della Regione Sicilia, nel 2001, per la stesura di una scheda storica di aggiornamento sul castello di Favara, da inserire nel libro Castelli di Sicilia. Guida agli itinerari castellani dell’isola, ha incaricato noi, accettando la nostra tesi sull’origine federiciana (si veda pagina 119) e non ha incaricato l’architetto Antinoro, pur essendo lui dirigente presso la Soprintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali di Agrigento e autore del restauro del nostro castello? Evidentemente il comitato scientifico, che doveva valutare gli studiosi e la validità delle loro pubblicazioni, ha reputato più valide le nostre credenziali rispetto a quelle dell’Antinoro. Non avremmo voluto scrivere tutto ciò, ma l’Antinoro, con le sue deliranti affermazioni storiche, ci insulta sempre, non è la prima volta, costringendoci a dei lunghi e faticosi chiarimenti, che alla fine risultano sempre inutili, perché lui, nella sua grande presunzione e arroganza, non accetta mai le critiche, negando sempre l’evidenza. Il confronto storico-culturale, che dovrebbe essere costruttivo, purtroppo, risulta sempre negativo.

Ci scusiamo moltissimo con i lettori per la grande fatica, alla quale li abbiamo sottoposti, per la lettura del lunghissimo articolo.