Agrigento, Piano Pastorale diocesano. Don Franco: “Cattedrale ferita e dimenticata ci ricorda le drammatiche conseguenze delle inadempienze istituzionali e del disinteresse collettivo”
“Anche quest’anno, come di consueto, accompagno la consegna del Piano Pastorale Diocesano con la condivisione dei sentimenti del mio cuore di pastore – ma anche di fratello, amico e compagno di viaggio – verso questa amata Chiesa di Agrigento e verso ciascuno di voi, cari presbiteri, diaconi e religiosi, fratelli e sorelle nel Signore!”
Lo scrive in una lettera l’arcivescovo di Agrigento, il cardinale Francesco Montenegro (in foto) che ha convocato per la giornata di oggi tutte le Parrocchie dell’Arcidiocesi, il Presbiterio e i Religiosi, gli Organismi di partecipazione, gli Operatori Pastorali, i Gruppi, le Associazioni, i Movimenti e le Nuove Comunità all’Assemblea Pastorale Diocesana.
“Mentre vi scrivo ho davanti agli occhi i tanti volti e le tante storie che in questi anni della mia permanenza tra voi mi sono diventati familiari e che fanno ormai parte della mia vita. Il mio pensiero va anche ai tanti volti e alle tante storie che ho soltanto intravisto e appena conosciuto e a quelli che non ho ancora avuto modo di incontrare o che, per la fatica del confronto o le diversità di vedute, si sentono lontani.
A tutti, uno per uno, vorrei che giungesse il mio abbraccio, insieme all’invito a rilanciare la sfida della comunione e della missione per la crescita del Regno di Dio: qui, ora e insieme!
Un grido di dolore e di speranza
Continua a risuonare in me il grido di dolore per la Cattedrale ferita e dimenticata, per il colle di Agrigento instabile e tradito e per il centro storico sempre più desolato e cadente, che preoccupano anche per l’incolumità delle persone e la tutela delle costruzioni dell’area circostante. Chiusa e pericolante ormai da sei lunghissimi anni, la nostra Chiesa Madre sta là, sul suo colle, a ricordarci le drammatiche conseguenze delle inadempienze istituzionali e del disinteresse collettivo. Rifiuto però di pensare che le piaghe e lo stato di abbandono della Cattedrale e del suo colle debbano diventare simbolo della nostra terra e – perché no? – della nostra Chiesa. Semmai sogno testardamente una “risurrezione” che diventi segno di una ripresa generale.
Mi sto riferendo alle tante risorse della terra agrigentina che continuano a essere mortificate e paralizzate da molteplici fattori interni ed esterni che, radicati nel passato, rendono sempre più incerto non solo il presente ma anche il nostro futuro. Penso alle tante infrastrutture che nella terra agrigentina versano in uno stato di preoccupante abbandono e ai tanti servizi che nei nostri paesi presentano carenze inaccettabili. Penso alle gravi problematiche che costringono tante imprese e attività locali a chiudere o a ridurre la loro capacità di iniziativa e di investimento, sia per la mancanza di adeguate politiche di rilancio e di sostegno sia per la diffusione latente di una mentalità rassegnata al clientelismo e all’illegalità. Penso soprattutto alla dignità offesa di un numero crescente di giovani e famiglie, anziani e immigrati, malati e disabili, che versano in condizioni sempre più difficili e spesso insostenibili.
E nello stesso tempo non posso non pensare alle nostre comunità ecclesiali, chiamate ogni giorno a misurarsi con una realtà sempre più complessa, problematica e frammentata, costrette ad affrontare sempre maggiori responsabilità e maggiore impegno, che a volte va al di là delle loro possibilità e delle loro forze. Comunità che sono chiamate a ripensare il proprio volto e il proprio ruolo in un contesto sociale che ci sta chiedendo altro, non perché quello che abbiamo fatto finora non vada più bene, ma perché, vista la situazione, non è più sufficiente e rivendica un “di più” a cui dobbiamo prepararci e a cui dobbiamo saper rispondere con determinazione e coraggio.
Se ripeto ancora una volta queste cose è perché sono fermamente convinto che la forza rinnovatrice del Vangelo, che passa attraverso la vita e l’azione della Chiesa, ci chiede una forte presa di coscienza delle sfide da assumere. Solo radicando l’annuncio del Vangelo nella realtà e nelle dinamiche del territorio, infatti, potremo dare concretezza alla fede, prospettive alla speranza e consistenza alla carità.
Recita il Salmo 11: «Quando sono scosse le fondamenta, il giusto che cosa può fare?». La risposta, secondo me, è di non rassegnarsi dinanzi all’ingiustizia umana e alla grave situazione sociale, ma di alzare il grido di speranza, confidando sempre nell’infinito amore di Dio e nelle immense possibilità presenti nel cuore di ogni uomo. Solo se ci lasciamo raggiungere e penetrare dallo sguardo misericordioso di Dio e se guardiamo con uno sguardo come il suo le realtà umane, anche le più contraddittorie e sbagliate, saremo riconquistati dalla fiducia che «gli uomini retti contempleranno il suo volto».
Ci fa bene ricordare le parole pronunciate da Giovanni Paolo II nella sua storica visita ad Agrigento, di cui quest’anno celebreremo il venticinquesimo anniversario: «Saluto Te, Agrigento, Città di antichissima civiltà, madre di menti eccelse e di cuori generosi! […] Saluto inoltre Te, Chiesa agrigentina, intrepida nella fede, edificata dai santi Vescovi Libertino, Gregorio e Gerlando, onorata attraverso i secoli da una lunga catena di santi».
Abitare la comunità… con uno sguardo nuovo
Con questa consapevolezza, mai rassegnata ma sempre carica di speranza, l’anno scorso – avviando il triennio della fase preparatoria del progetto di rinnovamento ecclesiale contenuto nel Documento-base – vi ho invitati a “ripensare la comunità”, attraverso una simbolica traversata “verso l’altra riva”. Vi ho suggerito, in concreto, di riconoscere con sincerità e onestà i “venti contrari” che spesso ci impediscono di proseguirla; e vi ho chiesto di riscoprire il valore di ritrovarci insieme sulla stessa “barca”, per non affondare e poter raggiungere nuovamente la terra ferma.
Con la stessa ansia per le sorti della nostra terra e la stessa fiducia nella forza di Dio e nelle grandi potenzialità della nostra Chiesa, vi chiedo ora un ulteriore passo, per essere capaci di “abitare la comunità” in modo rinnovato. Questo ci radicherà maggiormente nel territorio, ma “con uno sguardo nuovo”, che ridarà un significato profetico ai gesti della nostra fede e alle parole della nostra testimonianza, senza lasciarci intrappolare nella nostalgia e nelle consuetudini di un passato che non c’è più. Al contrario, vorrei che tutti ci sentissimo protesi verso un futuro che insieme – Dio e noi – possiamo e dobbiamo immaginare e costruire, un po’ alla volta!
Proiettarci “verso l’altra riva” significa infatti imparare ad abitare in modo rinnovato la terra di sempre, modificando i modi e le forme del nostro stesso abitare, poiché questi – penso che siate d’accordo – non essendo sempre adeguati, non rendono efficace la nostra azione pastorale. Abitare la terra di sempre “con uno sguardo nuovo” vuol dire assumere personalmente e comunitariamente una prospettiva diversa, per permettere al Vangelo di «fare nuove tutte le cose», senza aspettare che le cose cambino da sole o che siano gli altri a farlo. Vuol dire assumere la prospettiva della libertà dei figli di Dio e della passione per il Regno, della fedeltà incondizionata e della dedizione infaticabile, perché le “fragilità dell’umano”, di cui questa terra è piena e di cui tutti siamo, nello stesso tempo, portatori e responsabili, diventino occasioni di riscatto e opportunità di salvezza.
“Fragilità dell’umano” è una delle parole-chiave del magistero di Papa Francesco e degli orientamenti pastorali dell’Episcopato Italiano che dobbiamo far entrare anche nel nostro vocabolario, ma soprattutto nella nostra riflessione e nel nostro discernimento, nelle nostre scelte e nelle nostre opere. “Fragilità dell’umano” sono tutti quegli aspetti di debolezza che, nonostante le nostre aspirazioni e i nostri desideri, parlano veramente di noi e di quanti ci vivono accanto, richiamandoci alla giusta considerazione che dobbiamo avere di noi stessi e degli altri per vivere fino in fondo le istanze del discepolato.
Le “fragilità dell’umano” nell’esperienza personale
Le “fragilità dell’umano” ci riguardano e ci ricordano che non siamo migliori degli altri, perché l’uomo – che è ciascuno di noi – è per sua natura un bisogno da colmare, una solitudine da riempire, una relazione da costruire e custodire: con se stessi, con gli altri, con Dio, con la società e con il mondo. Ci ricordano le esigenze della giustizia e le regole della misericordia, perché siamo chiamati ad amare il prossimo “come noi stessi”. Ci educano alla compassione, perché solo riconoscendo i nostri bisogni possiamo riconoscere quelli degli altri e solo aspettandoci qualcosa dagli altri possiamo capire ciò che loro si aspettano da noi.
Sono provvidenziali, allora, le nostre fragilità, perché ci restituiscono quella misura di uomo che spesso perdiamo quando esasperiamo le nostre posizioni, illudendoci di poter bastare a noi stessi e di non aver bisogno degli altri, e risvegliano in noi il dovere dell’attenzione e della presa in carico che abbiamo nei confronti di tutti e soprattutto dei più deboli e dei più indifesi.
Parlare di fragilità è parlare di crisi. Il Papa, riferendosi alle crisi della famiglia – ma questo vale anche per le comunità! – chiede un “percorso di liberazione”, là dove fosse necessario. Ma forse un po’ tutti ne abbiamo bisogno! E aggiunge: «Ciò esige di riconoscere la necessità di guarire, di chiedere con insistenza la grazia di perdonare e di perdonarsi, di accettare aiuto, di cercare motivazioni positive e di ritornare a provare sempre di nuovo» (Amoris Laetitia, n. 240).
Faccio mie le parole di Papa Francesco per esortare tutti – all’interno delle famiglie come pure nei vari contesti della vita sociale ed ecclesiale in cui ciascuno ha responsabilità individuali e collettive – al coraggio della verità con se stessi, perché solo così possiamo diventare veri anche con gli altri e con l’intera realtà di cui siamo parte. È questa la condizione necessaria per “abitare la comunità… con uno sguardo nuovo”. E senza questo “cammino di cura della propria storia” – come lo chiama ancora Papa Francesco – non è pensabile abitare in modo rinnovato la terra di sempre.
Ciò risveglia il desiderio e la gioia dell’essere “un cuor solo e un’anima sola” nella sincerità della vita comunitaria – nell’unico Presbiterio come nell’unico corpo ecclesiale, all’interno delle nostre parrocchie come nel servizio al territorio – in cui le diversità non spaventano, ma si integrano e si armonizzano per la ricerca del bene comune.
Le “fragilità dell’umano” nel confronto con la realtà
Sono tante le fragilità con cui – a partire da quelle che ritroviamo in noi stessi – dobbiamo confrontarci e a cui dobbiamo dare il nostro apporto di speranza.
C’è innanzitutto quella più evidente, costituita dalla malattia e dalla disabilità psico-fisica. E, oltre alle malattie che ci sono sempre state, si stanno moltiplicando i casi di depressione e di disturbi della personalità, dovuti a condizionamenti ambientali e culturali di diversa natura.
C’è quella altrettanto evidente della povertà materiale, che è quella di sempre – le “vecchie povertà” – ma che si presenta anche con forme nuove, più difficili da decifrare e gestire. Se, infatti, la diversa distribuzione di beni e risorse, con il conseguente divario tra ricchi e poveri, ha sempre caratterizzato tutte le società compresa la nostra, il diffondersi di nuovi stili e modelli di vita, propri dell’attuale “società liquida”, sta generando un numero sempre crescente di “nuovi” poveri.
Così, per esempio, troviamo persone e famiglie che in passato hanno vissuto in una condizione di relativo benessere e che improvvisamente, a causa della perdita del lavoro, di situazioni lavorative precarie o sottopagate, di investimenti fallimentari o di grosse spese impreviste o anche – purtroppo – superflue, si ritrovano a non poter più arrivare alla fine del mese, a dover contrarre debiti insostenibili, spingendosi a volte nei meccanismi perversi dell’usura e giungendo anche al pignoramento dei beni e della stessa casa. Il consumismo dilagante, per niente interessato alla proposta evangelica, crea grande sproporzione tra bisogni, non sempre necessari ma crescenti, e possibilità economiche sempre più ridotte, producendo disagi impossibili da gestire.
A questo si aggiungono svariate altre forme di disagio sociale, dovute alla frustrazione delle proprie aspirazioni e, più in generale, alle condizioni sempre più alienanti dell’esistenza: dalla mancanza di opportunità per l’autorealizzazione professionale e lavorativa alle condizioni di precarietà che costringono a rimandare o a ritrattare le grandi scelte della vita; dalla difficoltà a gestire i conflitti familiari, sia all’interno della coppia sia nel confronto tra genitori e figli, al dramma delle separazioni e delle nuove unioni; dalla non accettazione del proprio orientamento sessuale alle varie espressioni di discriminazione ed emarginazione; dai fenomeni di bullismo, sempre più diffusi anche tra i più piccoli, alle forme sempre più esasperate di stalking, anche all’interno dei contesti familiari; dalle dipendenze alle ludopatie e alle devianze di diverso tipo.
Al dramma del disagio si unisce quello della solitudine che, come nel caso della povertà, presenta oggi aspetti nuovi e più complessi da capire e sostenere. Continuano a esserci – e ce ne sono sempre di più – anziani senza figli, o con figli che vivono lontano, o con familiari che non si curano di loro o lo fanno soltanto sporadicamente. Ma ci sono anche persone che rimangono da sole – e a volte anche con figli piccoli a carico – a causa dell’abbandono del coniuge, così come persone di qualsiasi età che non sono più disposte a compiere scelte impegnative e vincolanti per la vita.
Né dobbiamo sottovalutare le ricadute non sempre positive della vertiginosa diffusione del mondo digitale e della realtà virtuale sui più e meno giovani, che rischia di creare mondi alternativi in cui facilmente si può perdere il gusto dell’incontro e della relazione “faccia a faccia”, se non addirittura lo stesso contatto con la concretezza della vita.
Ma mi preoccupa soprattutto il pensiero che, quanto più queste fragilità sono lasciate da sole, tanto più possono diventare terreno fertile per il proliferare di quella mentalità mafiosa e di quella cultura della violenza che – con l’amaro in bocca, ma coraggiosamente, lo dobbiamo riconoscere! – si insinua come un cancro nei nostri ambienti. E mi preoccupa anche che di questo facciamo fatica a parlare, come se fosse ormai storia di altri tempi o come se non ci chiamasse in causa in prima persona e – insieme – come comunità ecclesiale.
La denuncia e il richiamo che, sgorgati dal cuore di Giovanni Paolo II alla Valle dei Templi, hanno fatto il giro del mondo e sono passate alla storia – «Lo dico ai responsabili: convertitevi! una volta volta verrà il giudizio di Dio!» – devono continuare a scuotere le nostre coscienze e risvegliarci dal torpore che rischia di renderci complici del male da cui non sappiamo prendere le distanze.
Come tante volte vi ho detto, non è pensabile sganciare l’annuncio del Vangelo dalla promozione umana e dunque dall’assunzione di queste e altre “fragilità dell’umano”, che segnano le nostre famiglie e il nostro territorio e di cui a volte non abbiamo piena consapevolezza o non sentiamo la responsabilità diretta, demandandola ad altri.
Per tutte le situazioni appena richiamate, in quanto espressioni di nuova povertà, può valere quanto il Santo Padre dice nel Messaggio per la I “Giornata mondiale dei Poveri”: «La preghiera, il cammino del discepolato e la conversione trovano nella carità che si fa condivisione la verifica della loro autenticità evangelica. […] Se vogliamo incontrare realmente Cristo, è necessario che ne tocchiamo il corpo in quello piagato dei poveri, come riscontro della comunione sacramentale ricevuta nell’Eucaristia. Il Corpo di Cristo, spezzato nella sacra liturgia, si lascia ritrovare dalla carità condivisa nei volti e nelle persone dei fratelli e delle sorelle più deboli». E ancora: «Se desideriamo offrire il nostro contributo efficace per il cambiamento della storia, generando vero sviluppo, è necessario che ascoltiamo il grido dei poveri e ci impegniamo a sollevarli dalla loro condizione di emarginazione».
Dalle “fragilità dell’umano” le coordinate dell’abitare
Capiamo bene allora che il nostro “abitare la comunità” non si può ridurre al semplice trovarci materialmente in un territorio delimitato dai confini parrocchiali, accanto ad altri che condividono la stessa fede e celebrano gli stessi sacramenti, anche loro dentro confini stabiliti. Né – tanto meno – si può risolvere in alcune iniziative finalizzate a ripopolare le nostre chiese, come se fosse questione di aumentare il numero dei cosiddetti “praticanti”, cioè di coloro che frequentano assiduamente la vita della parrocchia.
Lo sforzo di “abitare la comunità”, mentre deve accrescere in noi la coscienza ecclesiale e il nostro senso di appartenenza, ci deve spingere anche oltre noi stessi, per renderci conto che la comunità, pur avendo bisogno dei confini parrocchiali, li supera e abbraccia l’intera realtà del territorio, dove tutti ci devono interessare. Possiamo “abitare la comunità” – in questo senso profondamente evangelico e autenticamente ecclesiale – solo a condizione di saper ascoltare anche i gemiti inespressi di chi ha bisogno di sentire la tenerezza di Dio dovunque si trovi e qualunque sia la sua condizione, soprattutto se questa richiede un’attenzione speciale perché segnata da un particolare bisogno.
Non dimentichiamo che il modello dell’agire di Dio, fin dalle pagine dell’Antico Testamento, segue proprio questo schema: c’è un popolo, o una parte di esso, che vive una condizione di schiavitù; da questa situazione concreta si eleva un grido che giunge fino al cielo; Dio ascolta questo grido, sente compassione e “scende” per offrire una possibilità di salvezza. Nel Vangelo lo stesso schema acquista i lineamenti del Figlio di Dio, che si incarna per incontrare e salvare l’umanità ferita. In Gesù il suo “scendere” si fa condivisione piena e arriva fino a compromettersi con l’uomo in tutto, tranne che nel peccato, per riscattarlo. Di questa salvezza, che si attua nella capacità di “scendere” e di farsi prossimi per proseguire l’opera di salvezza rivolta a tutti gli uomini e a tutto l’uomo, la Chiesa è mediatrice. E in questo senso l’annuncio del Vangelo non può prescindere dalla promozione dell’uomo e dall’assunzione delle sue fragilità.
A questo specifico significato dell’abitare il V Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze 2015 ha dedicato un’intensa riflessione, indicandolo come una delle cinque “vie verso l’umanità nuova”, insieme all’uscire, all’annunciare, all’educare e al trasfigurare. Di questa riflessione vorrei riproporvi alcune espressioni che considero illuminanti. Abitare è «immersione nel territorio attraverso una presenza solidale, gomito a gomito con tutte le persone, specie quelle più fragili»; è «presenza capillare, prossimità salutare, capace di iscrivere nel mondo il segno dell’amore che salva»; è «attenzione rivolta al fratello […] ripensando insieme, se occorre, i nostri stessi modelli dell’abitare, del trascorrere il tempo libero, del festeggiare, del condividere».
I nuovi luoghi dell’annuncio cristiano, che non sostituiscono ma integrano e completano quelli tradizionali delle nostre parrocchie e delle loro consuetudini pastorali ormai consolidate ma – come dicevo – non più efficaci, sono pertanto quelli in cui le “fragilità dell’umano” sono più presenti e lasciano maggiormente il loro segno. Sono proprio queste, allora, che descrivono le coordinate dell’abitare e costituiscono le sfide dell’azione pastorale delle nostre comunità.
L’icona evangelica del ministero di Gesù a Gennesaret (Mc 6,53-56)
Queste considerazioni, che tracciano le linee del Piano Pastorale Diocesano, le vorrei collegare anche quest’anno a un’icona evangelica. Ho scelto il “Ministero di Gesù a Gennesaret” secondo la versione di Marco – il Vangelo che ascolteremo nella liturgia domenicale – sia per collocare il percorso diocesano di quest’anno in continuità con quello dell’anno scorso sia perché in questa pagina troviamo alcuni importanti spunti di riflessione che ci aiutano a cogliere il senso del cammino da compiere.
La narrazione comincia con la conclusione della traversata del lago e l’approdo a Gennesaret e prosegue con una descrizione concisa ed entusiasta – tipica del secondo evangelista – dell’azione di Gesù nei confronti di quanti venivano portati a Lui per «poter toccare almeno il lembo del suo mantello». Si conclude poi con l’esito di questa azione, riferito ancora una volta in maniera lapidaria ma, proprio per questo, ancora più incisiva: «quanti lo toccavano venivano salvati».
L’obiettivo del racconto è chiaro: il “kerygma” – ossia l’annuncio della salvezza in Cristo, che Pietro ha annunciato nella sua predicazione romana e di cui Marco si fa interprete e trascrittore – si realizza efficacemente nella concretezza di un incontro, semplice e immediato, in cui spesso c’è poco da dire e molto da fare. Un incontro tra la gente del luogo e un numero imprecisato di malati, di cui l’evangelista riferisce unicamente che non sono in grado di camminare da soli: per questo devono fare uso di barelle e questo è possibile solo se c’è qualcuno che se ne fa carico. E poi un incontro tra questi vari tipi di precarietà – che gli uni si portano nella propria carne e gli altri assumono su di sé – e la potenza risanatrice di Cristo.
Anche la descrizione del contesto in cui avviene questo duplice incontro mi sembra particolarmente interessante. Non ci troviamo in un luogo di culto né in un momento formale di evangelizzazione, ma mentre Gesù sta camminando «in villaggi, città o campagne» e si intrattiene «nelle piazze», là dove si trova, accorre e viene portato chiunque. Evidentemente c’è sullo sfondo un’esperienza di fede, che permette alla gente di riconoscere Gesù al suo passaggio e di rivolgergli le sue suppliche, ma il tutto si svolge in uno spazio comune e in un momento di ordinaria quotidianità.
Al centro della narrazione, inoltre, troviamo quattro azioni, nelle quali possiamo intravedere gli atteggiamenti che la comunità cristiana deve assumere per mediare l’incontro con Cristo. Brevemente mi soffermo su questi passaggi, per offrirvi alcune indicazioni e alcuni suggerimenti pratici per ognuna delle quattro tappe del Piano Pastorale, che vivremo secondo i ritmi dell’anno liturgico.
1. Scesi dalla barca…
La prima di queste azioni è l’unica dell’intero racconto che riguarda i discepoli, i quali sono raffigurati nell’atto di scendere dalla barca insieme a Gesù, subito dopo l’approdo.
È importante tenere presente che nel precedente racconto della traversata del lago (6,45-52) Marco – rispetto a Matteo – non riferisce l’episodio di Pietro, ma insiste sul fatto che «tutti lo avevano visto e ne erano rimasti sconvolti» (6,50). Inoltre, mentre Matteo conclude il suo racconto con la prostrazione e la professione di fede dei discepoli, Marco ribadisce la loro meraviglia, motivandola con la durezza del cuore e riferendola all’episodio della moltiplicazione dei pani: «Dentro di sé erano fortemente meravigliati, perché non avevano compreso il fatto dei pani: il loro cuore era indurito» (6,51-52).
Questo collegamento lascia intendere che i discepoli – come vi ho fatto notare nella lettura dell’icona dello scorso anno – stentano a entrare nella logica di Gesù, il quale moltiplica quel poco che loro avevano pensato di dividere, trattenendolo per sé piuttosto che mettendolo a disposizione di tutti. Lascia intendere – come vi dicevo – la distanza tra il sentire e l’agire di Gesù e quelli dei suoi discepoli, per i quali la folla costituisce una presenza imbarazzante, in quanto esprime una richiesta impegnativa e mette allo scoperto la loro incapacità di gestirla.
Dobbiamo riconoscere che spesso l’atteggiamento dei discepoli è anche il nostro! Quante volte restiamo aggrappati alle nostre piccole sicurezze e alle nostre comode abitudini, per la paura di metterci in discussione e di cambiare il nostro modo di intendere la fede e le sue esigenze… Quante volte gli “altri” rappresentano una minaccia al nostro quieto vivere e preferiamo continuare a chiamarli “lontani” solo perché non abbiamo il coraggio e la voglia di avvicinarli…
Nell’atto di scendere dalla barca leggo la necessità di completare la traversata accogliendo pienamente e decisamente la sfida della conversione: quella del cuore, prima di tutto, e poi anche quella dell’azione pastorale delle nostre comunità, orientandola a una comunione più leale e a una missione più convinta.
Scendere vuol dire assumere un atteggiamento di umiltà per ripensare la vita della Chiesa – e la vita di ciascuno di noi – in termini di servizio, al di là di ogni condizione e di ogni discriminazione. Una “Chiesa in uscita” non può tirarsi indietro o temporeggiare, chiedendosi se assumere o meno il territorio come misura della propria identità, del proprio ruolo e della propria azione: ormai occorre essere pronti a questo cambiamento di mentalità, accettarlo, incoraggiarlo e sostenerlo, per de-centrarci e – come amava dire don Tonino Bello – diventare sempre più “estroversi”.
Ma tutto questo non si può improvvisare né basare su alcuni discorsi più o meno convincenti. Va preparato e accompagnato con una preghiera costante e un confronto serio con la Parola. Ricordiamoci che all’inizio, subito dopo aver costretto i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva finché non avesse congedato la folla, Gesù si ritira sul monte a pregare, insegnandoci che solo là possiamo trovare la forza di cui abbiamo bisogno.
2. La gente subito lo riconobbe…
Nel resto del racconto non si fa più cenno ai discepoli e le azioni successive hanno tutte come soggetto la gente del luogo. Ciò non significa che i discepoli scompaiono dalla scena, ma semplicemente che si confondono tra le persone incontrate per strada. Mi piace pensare che i discepoli ora assumono i volti della gente perché la gente assuma quelli dei discepoli. È la “fede per contagio”, che non si trasmette con le parole proclamate, ma con la vita condivisa.
Lo stesso Marco, descrivendo la chiamata degli apostoli, dice espressamente: «Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli –, perché stessero con lui e per mandarli a predicare». Nello stile del secondo Vangelo, la predicazione non è un discorso, ma un racconto, tanto che gli studiosi parlano di una “catechesi narrativa”, nella quale gli eventi – e soprattutto l’evento dell’incontro – manifestano la potenza di Gesù nella vita di ogni uomo.
Questa è la condizione perché la gente possa riconoscere Gesù. E qui troviamo la seconda azione su cui vi invito a riflettere. Solo un atteggiamento di autentica prossimità, fatta di vicinanza e di solidarietà, mentre ci fa riconoscere le “fragilità dell’umano” e ci fa sentire responsabili, permette alla gente di riconoscere Cristo nel suo corpo che è la comunità cristiana.
Ci rendiamo conto allora di quanto sia fondamentale la lettura del territorio che ormai da anni vi sto chiedendo di compiere. In particolare si rende necessaria una seconda fase di questo esercizio: passare cioè dalla raccolta e dalla sistemazione dei dati statistici a una lettura propriamente “pastorale”, come quella che abbiamo iniziato a compiere nella Visita Pastorale. Ho affidato al Dipartimento Pastorale della Curia l’impegno di aiutare le nostre comunità a ultimare la prima fase – dove non fosse ancora completa – e ad avviare la seconda. Anche questo cercheremo di fare gradualmente nelle quattro tappe del Piano Pastorale Diocesano, partendo dalla “rilettura delle pratiche pastorali” per arrivare a una “restituzione” nei vari livelli, riadattando lo schema proposto dalla CEI in preparazione al Sinodo sui Giovani. Vi raccomando di seguirne le indicazioni, per non restare indietro: è un dovere che abbiamo, non nei confronti del Vescovo, ma della nostra gente!
È proprio questa conoscenza più profonda della reale situazione dei nostri territori e delle loro esigenze a rivelarci che non basta avere un oratorio, un gruppo di giovani e di famiglie, un gruppo Caritas, un gruppo liturgico, un gruppo di animazione missionaria, o i ministri straordinari della S. Comunione e i catechisti con le loro tradizionali attività di catechismo, per ritenerci soddisfatti del nostro impegno pastorale. Tutto questo è utile – e anche necessario – come punto di partenza, ma adesso, da una conoscenza più puntuale e approfondita, dobbiamo puntare decisamente sull’ispirazione catecumenale dei percorsi di fede per le famiglie e per i giovani, alla luce dei rispettivi Sinodi, curando l’accompagnamento nelle varie fasi della vita, con un’attenzione particolare alle situazioni più delicate.
Così come è necessario cominciare a muoversi più fattivamente per sostenere la capacità di autorealizzazione giovanile. Le recenti riflessioni su “Chiesa, giovani e lavoro”, che come Chiesa Italiana stiamo portando avanti anche a seguito del Convegno delle Diocesi del Sud (Napoli, febbraio 2017) e soprattutto dell’ultima “Settimana Sociale” (Cagliari, ottobre 2017), ci sollecitano a un impegno mirato di intesa con le parti sociali e di investimento di beni e risorse, per creare nuove prospettive al mondo giovanile. In Diocesi ci stiamo provando con le attività del “Progetto Policoro”, con il tentativo di costituire una cosiddetta “fondazione di comunità” e con i vari progetti della Caritas, per creare imprenditoria e opportunità di sviluppo. Ma su questo occorre che ogni comunità locale e ognuno di noi cominci a pensare in termini più concreti.
3. Accorrendo da tutta quella regione…
Ovviamente queste rinnovate esigenze della pastorale ecclesiale richiedono uno sforzo ancora maggiore di creare sinergia tra le parrocchie, che – lo ripeto – non possono più trincerarsi dietro l’alibi del proprio confine, ma devono aprirsi coraggiosamente a una visione più organica e integrata.
In questo senso ci orienta la terza azione della narrazione evangelica su cui stiamo riflettendo. Marco riferisce che, avendo riconosciuto Gesù, la gente comincia ad accorrere «da tutta quella regione». La forma del verbo – al gerundio – esprime un’azione non compiuta una volta sola ma continuata nel tempo, per indicare che non sono sufficienti alcune occasioni sporadiche di incontro, ma serve un impegno sistematico di collaborazione, che permetta il superamento del radicamento e delle appartenenze locali – e perciò parziali – verso una maggiore apertura all’intera «regione». Ancora una volta troviamo la conferma dell’idea che la misura della comunità non è più il confine ma il territorio.
E per un esercizio di ecclesialità a misura di territorio occorre rilanciare il valore dei “poli pastorali”. Non si tratta – come già l’anno scorso abbiamo precisato – di un’alternativa alle parrocchie o alle unità pastorali né di qualcosa di nuovo rispetto a un’esigenza emersa già nella riflessione dell’Anno dell’Ascolto (2008-2009) e da allora costantemente ribadita. Introducendo questa nuova terminologia abbiamo semplicemente cercato di evitare il rischio della confusione tra due realtà che di fatto sono diverse: da una parte, le unità pastorali, che consistono in due o più parrocchie affidate in solidum a un unico parroco per risolvere il problema della riduzione del numero dei presbiteri; dall’altra, la necessità che tutte le parrocchie – e non solo quelle che condividono lo stesso parroco – si orientino verso forme di collaborazione più organica e stabile. Su questo dobbiamo puntare per superare la tentazione di autoreferenzialità, che sempre minaccia le nostre comunità. E anche in merito a questa questione il Piano Pastorale Diocesano prevede un percorso graduale che ci dovrà portare, un passo alla volta, a capirne il senso e ad avviarne la costituzione.
Deve essere chiaro a tutti, però, che la “totalità” della regione, secondo lo spirito dell’icona evangelica, non si pone semplicemente sul piano geografico. Questo comporterebbe il rischio di spostare semplicemente i confini, da quello della parrocchia a quello del “polo”. La “totalità” della regione richiede che tutti, soprattutto quelli che restano o che sono ai margini di qualsiasi confine, hanno “diritto di asilo” nella Chiesa e devono poter trovare la loro collocazione nella vita della comunità cristiana. Su questo sarà necessario riprendere le indicazioni che il Santo Padre dà nell’ottavo capitolo della Amoris Laetitia su “Accompagnare, discernere e integrare la fragilità” ed estenderle dall’ambito strettamente familiare a tutti i livelli della vita sociale.
4. Cominciarono a portargli sulle barelle i malati…
L’ultima azione raccoglie le premesse e ne trae le conseguenze: «Cominciarono a portargli sulle barelle i malati». Mi sembra molto interessante che l’ultima di queste quattro azioni sia espressa dal verbo “cominciare”. Ciò significa che ogni volta che rispondiamo nuovamente alle sollecitazioni del Signore è sempre un nuovo inizio.
La richiesta di aiuto della gente, spesso latente e silenziosa, e la risposta di prossimità della comunità, sempre più sollecita e generosa, devono diventare l’opportunità per trasformare le “fragilità dell’umano” in nuovi luoghi di evangelizzazione e in nuove occasioni di salvezza.
L’impegno che a tutti è richiesto in questo senso ci dovrà mettere nelle condizioni di passare dalla capacità di “abitare” a quella di “vivere” la comunità. Ma questo costituirà il tema e la sfida della terza tappa che caratterizzerà il Piano Pastorale Diocesano del prossimo anno.
Intanto chiedo a tutti di entrare nella stessa lunghezza d’onda, affinché la terra e la Chiesa di Agrigento, come Gennesaret, possano rispondere accoratamente all’invito del Signore, che continua a passare per rinnovarle e renderle sempre più belle.
Prima di chiudere questo mio scritto sento il bisogno di manifestare la mia gratitudine a tutti i presbiteri e i diaconi, che in vario modo e nei diversi luoghi vivono il loro prezioso e non facile ministero. È un grazie che si allarga e abbraccia i vari ministri, i consacrati e tutti i fedeli della Chiesa Agrigentina.
Chiedo inoltre a tutti la preghiera – ma anche la disponibilità! – affinché la nostra presenza e il nostro impegno nella Chiesa di Albania possano continuare con slancio e generosità, perché solo una sincera e condivisa prontezza alla missione ad extra ci rende pienamente Chiesa secondo il cuore di Dio.
Mentre – per quanto vi ho detto e per tutto ciò che vi sta a cuore – vi benedico e vi affido alla materna intercessione di Maria, vi abbraccio e vi rinnovo i miei sentimenti di affetto e di amicizia!”