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Agrigento, Giubileo diocesano: il messaggio di Francesco Montenegro – VIDEO

Francesco-MontenegroEcco il testo integrale dell’omelia che il card.Francesco Montenegro (in foto) ha pronunciato durante la celebrazione eucaristica del Giubileo dell’Arcidiocesi di Agrigento che si è tenuto al PalaMoncada di Porto Empedocle sabato 5 marzo 2016. 

La Sacra Scrittura, quando parla di Dio e dell’uomo, non dà mai definizioni, ma racconta fatti e avvenimenti che, scavando nella coscienza di chi li compie o li subisce, arrivano là dove neppure le definizioni più acute riescono ad arrivare. Questo vale soprattutto per la misericordia, che è l’essenza stessa di Dio, il suo modo di essere e di agire.

E per questo nostro Giubileo Diocesano non poteva esserci una Parola più appropriata di quella appena ascoltata: Luca con la storia del padre e dei suoi due figli racconta il cuore di Dio e il dramma dell’esistenza dell’uomo. La storia dell’ingresso di Israele nella terra promessa (prima lettura) racconta la tenerezza e la pazienza di Dio che conduce il suo popolo verso la libertà e la felicità, nonostante le molte infedeltà e ribellioni.

Nell’uno e nell’altro caso è descritto il dramma di un amore: l’ amore misericordioso di Dio, che condivide il cammino dell’ uomo, nei suoi continui sbalzi di umore, in mezzo al deserto del mondo, e lo attende quando si stanca di vagare in questo deserto senza meta e senza speranza. Nell’uno e nell’altro caso c’è il ritorno: il ritorno di Israele all’alleanza, tradita ma sempre rinnovata, e il ritorno a casa del figlio, fuggito ma sempre atteso. I due racconti si concludono con la gioia di una festa: la pasqua, che celebra il compiersi delle promesse fatte ai padri, e il banchetto, che celebra il ritrovamento del figlio perduto.

La misericordia è questo: un amore, un ritorno e una festa. E questa nostra assemblea oggi ne è l’espressione più bella: abbiamo riletto il cammino della nostra Chiesa, cercando di individuarvi i segni dell’amore di Dio verso di noi e quelli dell’amore che noi dobbiamo alle nostre comunità e al nostro territorio; abbiamo abbozzato i passi da compiere per ritornare al Signore e per accompagnare il ritorno di chi abbiamo lasciato lontano o di chi non abbiamo mai raggiunto; e ora, celebrando la gioia di stare insieme, attorno alla mensa che ci rende figli e fratelli, gustiamo la festa della salvezza per portarne il sapore nella vita di ogni giorno.

a) Misericordia come amore

Sappiamo che amare non è facile, perché – come diceva don Tonino Bello – «amare, voce del verbo morire, significa decentrarsi; uscire da sé; dare senza chiedere; essere discreti al limite del silenzio; soffrire per far cadere le squame dell’egoismo; […] desiderare la felicità dell’altro; rispettare il suo destino; e scomparire, quando ci si accorge di turbare la sua missione».

Nella parabola del padre misericordioso c’è tutto questo e da essa impariamo sia quale deve essere lo stile della nostra vita, personale e comunitaria, sia quale deve essere il nostro impegno verso il territorio e le attenzioni da avere verso quanti lo abitano, vicini e lontani, amici e nemici, giusti e disonesti. Il padre della parabola si de-centra rinunciando alla sua identità di padre di fronte al figlio che, chiedendogli l’eredità, lo considera morto. Esce da sé quando lo lascia partire senza tentare di fermarlo. Dà senza chiedere quando gli permette di perdere tutto senza richiedere il risarcimento dei danni. È discreto al limite del silenzio quando resta ad aspettarlo senza rimproverargli le trasgressioni e senza rivendicare il rispetto. Soffre perché gli cadano le squame dell’egoismo quando lo lascia sbagliare perché impari dagli errori. Desidera la sua felicità quando spera che le lezioni della vita lo riportino in se stesso. Rispetta il suo destino quando accetta anche il rischio di non rivederlo più. Scompare quando si mette da parte, rinunciando ad averlo come figlio ma senza rinunciare a restargli padre.

Accettando le proposte della parabola e pensando alle nostre comunità desideriamo che in noi cresca sempre di più il tratto della misericordia per essere “misericordiosi come il Padre”.

La conversione –richiestaci in questo Giubileo e in questa Quaresima – non è tanto quella di cambiare il nostro agire, ma il nostro modo di intendere Dio per riuscire a essere misericordiosi come Lui. Convertirsi non significa acquisire dei meriti, ma scoprire e stupirci per la misericordia del Padre che si rivela nel volto di Gesù. È chiedere perdono, ma anche riconoscersi figli e fratelli.

Tante volte vi ho detto che non è questione di inventare nuove strategie, ma di cambiare il cuore, di purificare i sentimenti, di rinnovare le intenzioni, di ritrovare le motivazioni. Sentiamoci tutti – ministri, famiglie religiose, laici – una grandissima ricchezza per il nostro territorio e per le nostre parrocchie. Ma se non ci convinciamo che il centro di tutto non siamo noi ma l’altro, restiamo sterili. Se spegneremo i risentimenti, perdoneremo le offese, risaneremo le ferite, ricomporremo le fratture, accantoneremo i pregiudizi, la nostra testimonianza e il nostro impegno porteranno frutti.

Proprio perché vediamo le chiese svuotarsi, i giovani allontanarsi, le famiglie isolarsi, i lontani aumentare, i fatti della storia vicina e lontana sempre più complicati, dobbiamo tornare a confrontarci con quell’amore disposto a morire pur di far vivere l’altro.

Non si tratta solo di scoprire quanto non ha funzionato nella nostra programmazione, ma di chiederci se veramente ci siamo lasciati raggiungere e trasformare dal Signore, così che ogni programma pastorale e ogni azione ecclesiale lo confrontiamo con l’unica regola dell’amore, che è quella di abbassarsi per lavare i piedi dell’altro: «vi ho dato infatti un esempio – ci dice Gesù – perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15).

In questo tempo Giubilare e che ci prepara alla Pasqua sentiamo l’invito a vivere lo stesso amore incondizionato con cui Gesù «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1). Sentiamolo forte l’invito ad aprirci al mondo, che ha le dimensioni di tutta la terra e le coordinate concrete del nostro territorio. Confrontiamoci con i suoi bisogni e i suoi ritardi. Chiediamoci se e quanto sappiamo riconoscere come “nostri” – così come Gesù ha saputo riconoscere “suoi” – coloro che sono nel mondo, al di là di ogni giudizio e di ogni pregiudizio, con lo stesso amore sincero con cui Dio «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45). E chiediamoci pure fin dove riusciamo a spingerci nella sfida di quel “fino alla fine” che è la misura della misericordia di Dio e che è il termine dell’amore con cui dobbiamo amarci gli uni gli altri.

b) Misericordia come ritorno

Se amare è difficile, lo è anche ritornare. Ritornare sui propri passi significa sapersi confrontare con gli altri e con se stessi. Ma ritornare è anche il verbo della nostalgia, che è la condizione per affrontare la vita e continuare il cammino. È la nostalgia di chi allontanatosi da casa per ragioni di lavoro o di studio vuole ritornare dai suoi. O chi per scontare una pena o per sfuggire alla miseria e alla guerra sogna di ritornare ai suoi affetti e alle sue cose. Gli innamorati ritornano, almeno con il pensiero, ai momenti del primo amore e nei posti delle prime carezze.

Anche Dio, quando vuole ri-chiamare il suo popolo, lo riporta nel deserto, nel luogo del fidanzamento e al tempo dell’alleanza, non per rimproverarlo, ma per fargli gustare nuovamente i «giorni della sua giovinezza» (Os 2,17). Il cammino di Israele nel deserto, come il vagabondaggio del figlio piccolo della parabola, sono tappe obbligatorie per conoscere e ri-conoscere Colui che ci vuole condurre e coloro verso i quali ci vuole portare. Ognuno di noi è figlio, più o meno “prodigo”, e tutti insieme siamo popolo, più o meno fedele. Dio anche a noi chiede di essere sempre in atteggiamento di “uscita”, di accettare la sfida dell’esodo e dell’esilio, perché solo attraverso questa via possiamo “ritornare in noi stessi” e ritrovare Lui e i fratelli.

I due figli, facendosi un’immagine distorta del padre, hanno smarrito la propria identità e perso la relazione tra loro. Nessuno dei due riesce a riconoscersi figlio perché nessuno dei due ha conosciuto realmente il padre. Ma almeno il piccolo, allontanandosi e sbagliando, ha avuto la possibilità di ritornare e di apprendere la lezione della misericordia nella corsa e nell’abbraccio del padre. Il grande, invece, pensando che bastasse restare, è rimasto vittima di se stesso e neppure il padre con la sua preghiera è riuscito a smuoverlo. Non sappiamo come la storia sia andata a finire. Forse perché sta a noi decidere. A noi che a volte siamo come il figlio piccolo ma capriccioso e a volte come il figlio grande con i paraocchi. Più volte ci siamo detti che essere “vicini” o “lontani” rispetto alla fede e alla vita delle nostre parrocchie è solo una questione di prospettive. Oggi vorrei aggiungere che essere “vicini” non è una sicurezza, così come stare “lontani” non è un rischio. A tutti il Signore chiede di essere misericordiosi come Lui, capaci cioè di amore eroico, di ritorno autentico e di festa sincera.

Viviamo questo tempo giubilare serenamente e sinceramente come il tempo fecondo dell’esilio, in cui Dio rinnova l’alleanza con noi. Restiamo inquieti fino a quando la distanza tra noi e Lui e tra noi e i fratelli non sarà colmata.

c) Misericordia come festa

Solo così la festa della misericordia potrà essere piena. L’amore che ritorna è sempre fonte di riconciliazione, come ci ha ricordato la seconda lettura. Riconciliazione: sia questa la parola d’ordine di questo Giubileo, di questa Quaresima e della “conversione pastorale” che è richiesta alle nostre comunità. E cosa vuol dire riconciliare, se non mettere nuovamente insieme?

Guardiamoci con simpatia, non temiamo se dobbiamo mettere in moto la fantasia della carità e inventare nuove linee pastorali che superano i confini delle parrocchie, non lasciamoci turbare se Dio ci spalanca le frontiere della missione nel territorio e fino ai confini della terra. Sono le cose nuove che stanno nascendo, ma ci saranno nella misura in cui lasciamo passare quelle vecchie. Dove passare non significa annullare o cancellare ciò che già c’è, ma fare in modo che ciò che c’è non si inaridisca restando così com’è, ma si realizzi sviluppandosi secondo le regole che la misericordia del Padre ci insegna.

Maria, donna di speranza, ci sostenga, ci guidi e ci aiuti.

Fonte diocesiag.it