“Racconti d’Estate”: la prima parte de “La Truscia” di Giuseppe Graceffa
“Racconti d’Estate“, la nuova rubrica settimanale di Scrivo Libero, che per questa stagione estiva vuole allietare i nostri lettori con alcuni racconti dello scrittore aragonese, Giuseppe Graceffa (in foto), un autore poliedrico che predilige spaziare con disinvoltura tra generi letterari diversi, dal realismo alla fantascienza, nonché tra stili di scrittura differenti, dal romanzo al racconto, dalle sceneggiature ai saggi.
Finalista in diversi concorsi letterari, ha pubblicato un saggio cinematografico sulla trilogia di Matrix e un romanzo fantasy dal titolo “Il Sigillo di Khor” edito dal gruppo editoriale Twins Edizioni & David And Matthaus, disponibile in libreria o al seguente link.
Dopo il successo di “Grano Duro” e il “Dottore Licata“, oggi la prima parte del racconto “La Truscia“:
“LA TRUSCIA”
PARTE PRIMA
L’alba non era ancora giunta ad illuminare la strada che stavano percorrendo. Camminavano da oltre due ore nel buio della notte, come una carovana di lerci fantasmi che si apprestava ad andare incontro al destino. Verso un lavoro che gli permetteva di campare e spesso di crepare.
Se andava bene, poche monete e un tozzo di pane.
Se andava male la possibilità di morire schiacciati da un crollo o avvelenati dalle esalazioni di gas o affogati in un’improvvisa inondazione d’acqua o sfracellati da un’esplosione.
Saro si guardò intorno per un attimo. Un lungo serpentone di uomini che si stagliava nella campagna. Ma quanti ne erano morti nell’ultimo anno? A volte faceva fatica a tenere a mente il numero di quelli che ci crepavano. Forse dieci o forse di più. Ma tanto il numero di quelli che ogni mattina prima dell’alba si alzavano e si incamminavano per ore per raggiungere le miniere di zolfo sembrava che non diminuisse mai.
Alcuni di quelli che conosceva non c’erano più e spesso una faccia nuova si univa a quel gruppo di disperati.
Lui invece c‘era sempre. U Zì Saro, un uomo ormai avanti con gli anni, che aveva passato quasi tutta la sua vita in miniera tanto che aveva visto più il buio delle gallerie che la luce del sole.
Sentiva gli altri parlare fra loro, qualcuno in fondo alla fila addirittura intonare una cantilena, i carusi rincorrersi, mentre lui se ne stava in disparte, in capo alla fila, silenzioso e pensieroso, con il bastone in mano che lo aiutava nella camminata.
Aveva una corporatura molto magra e non era particolarmente alto, anzi, era piuttosto basso e minuto. I pochi capelli arruffati che aveva sotto la coppola, stavano cominciando ad imbiancarsi, così come i baffi spessi che gli incorniciavano le labbra sottili e aspre.
Appeso alle spalle aveva una sorta di fagotto di stoffa logora con tutta la sua “robba” che si portava sempre dietro quando andava a lavorare. Una truscia con un po’ di scaglie di formaggio, del pane e delle olive. Una bottiglia piena a metà di vino rosso; una scatoletta di latta con il tabacco e le cartine per fumare. Un ricambio di gas per la citulena. Un paio di pantaloni sdruciti e una camicia logora e spiegazzata nel caso ne avesse avuto bisogno.
Molti tenevano la citulena accesa per farsi luce, ma lui no. Se la teneva appesa alla cinta dei pantaloni perché l’acitulene costava, e non gli andava di buttare via i soldi, tanto più che conosceva la strada a memoria e non aveva certo bisogno di farsi luce per arrivare alla zolfara. Meglio usarla quando sei nei buchi, pensava tra se, guardando quelli che invece tenevano in alto la lampada alimentata a gas ed acqua che manteneva viva una fiammella che lottava costantemente con la brezza mattutina per non spegnersi.
Erano ormai anni che faceva il sulfararo e lavorava in quella miniera, e i suoi piedi potevano andarci da soli senza che lui facesse niente. Anzi poteva anche dormire nel frattempo, che tanto alla zolfara ci sarebbe arrivato lo stesso.
Si guardò intorno per vedere dov’era Totò, il suo “caruso” ma non riuscì a scorgerlo
– Totò – gridò a voce alta – veni qua –
Un attimo dopo vide avvicinarsi il ragazzo più velocemente che poteva, mentre zoppicava leggermente con la gamba destra. Non poteva avere più di dieci anni ed era fisicamente piccolo e gracile. Un piede fratturato e mai completamente guarito lo faceva zoppicare, mentre una evidente gobba denotava una malformazione della schiena, forse dovuta ai pesi che era costretto a trasportare quotidianamente. Al contrario del resto del corpo, invece, aveva una testa grossa, che evidentemente spiccava in quel fisico minuto e che aveva indotto gli altri a chiamarlo “Tistuni”
– arrivo Zi Sarò – rispose ansimando il ragazzo – mi comandasse –
Saro riprese a camminare aiutandosi col bastone
– tistuni che non sei altro. Ti dissi che non ti devi allontanare troppo, quante volte te lo devo ripetere –
Totò non rispose e mantenne il capo chino tenendosi a qualche passo di distanza, temendo che lo Zi Saro potesse dargli una delle solite bastonate che spesso gli infliggeva quando lo rimproverava per qualche cosa. Questa volta però sembrava che l’uomo avesse altro per la testa e non lo punì come invece il ragazzo si aspettava. Si mise allora a due passi di distanza e lo seguì come un cane che segue il proprio padrone, dando un’occhiata ogni tanto alle sue spalle per vedere che facevano gli altri carusi.
Non che a Saro interessasse realmente ciò che faceva il ragazzo. L’unica cosa che gli importava era averlo sempre sott’occhio visto che anche lui era robba sua, come il formaggio e le olive. Peccato anzi che non poteva metterlo nella truscia insieme alle altre cose e tirarlo fuori solamente quando gli serviva.
Fu solo quando stava cominciando ad albeggiare che arrivarono alla miniera, insieme ad altre decine di lavoratori pronti per cominciare una nuova giornata di duro lavoro.
Il campo minerario era piuttosto vasto e si estendeva nella sua interezza sul lato est della collina di Santa Rosalia. In basso si trovavano le polveriere, casupole in pietra bianca recintate da alti muri, anch’essi in pietra, nelle quali erano conservati gli esplosivi necessari agli scavi delle gallerie.
Salendo sul versante della montagna, ai lati della strada sterrata che conduceva in cima, si trovavano i primi calcaroni dismessi, giganti solitari e tondeggianti che ricordavano sempre a tutti ciò che stavano andando a fare e che rivaleggiavano per grandezza ed imponenza con i “rosticci” di “ginisi”, ampie collinette rossastre risultato invece di ciò che avevano fatto.
A metà strada si ergeva l’edificio che ospitava gli uffici della compagnia mineraria proprietaria della zolfara, una casa in legno e pietre dalla quale si poteva controllare l’attività dell’intero campo.
Gli operai guardavano quell’edificio con timore, rispetto e speranza. All’interno di quelle stanze che non avevano mai visto ma che avevano immaginato mille volte, lavoravano uomini da cui dipendeva la loro vita e la possibilità di portare il pane a casa. Dietro quelle pareti di pietra poteva essere deciso ogni giorno il destino di ognuno di loro non meno di come all’interno delle gallerie veniva segnata indelebilmente la loro misera esistenza.
Le prime discenderie invece si trovavano allo stesso livello dell’edificio della direzione mineraria, mentre più in alto i nuovi forni Gill venivano preparati per ricevere il materiale estratto e i calcheroni attivi continuavano a vomitare lentamente zolfo fuso e ad ammorbare l’aria con il puzzo acre delle loro esalazioni.
L’arditura erano già al lavoro intorno ai calcheroni fumanti, pronti come al solito a raccogliere “l’ogliu” nelle gavite, e aspettare poi che si raffreddasse e si rassodasse per raccoglierlo in grosse balate.
Saro li guardò da lontano mentre si avvicinava al piazzale di raccolta. Ogni volta non si capacitava del fatto che anche loro fossero considerati minatori e pagati come tali. Certo, raccoglievano lo zolfo che calava dai forni, ma l’arditura non scendevano mai nella gallerie e invece se ne stavano spesso al sole, spaparanzati come lucertole, ad aspettare soltanto che l’ogliu scendesse nelle gavite. Bella vita, pensò.
Invece lui e i suoi compagni che erano pirriatura, si dovevano spaccare la schiena tutto il santo giorno nelle gallerie sottoterra. Bella vita, si disse nuovamente.
Il capomastro era già in piedi sul carro di legno intento a gridare ordini e insultare tutto e tutti. Era un uomo grande e grosso, con la pancia prominente e folti baffi neri sotto un naso butterato. Da quella posizione, in alto sul carro, dominava tutto il campo. Gli stivali che indossava erano inzaccherati dalla polvere ma il resto degli abiti era pulito, come raramente si vedeva negli altri operai.
Incitava gli uomini a sbrigarsi a male parole e la sua voce risuonava ovunque tanto alta da sovrastare il mormorio degli operai e le loro sommesse lamentele.
Saro aumentò il passo e quando fu giunto nei pressi del capomastro, questi lo vide e gli ringhiò contro
– amunì Saro, portati i picciotti e cominciate a scinniri che è tardi –
Giuseppe Graceffa
Non perdete la seconda parte del prossimo racconto “La Truscia” che sarà pubblicata sabato 22 agosto.
Ecco il calendario delle prossime pubblicazioni:
– Sabato 22 agosto: seconda parte del racconto “La Truscia“;
– Sabato 29 agosto: terza (ed ultima) parte del racconto “La Truscia“;
– Sabato 5 settembre: prima parte del racconto “Questione di corna“;
– Sabato 12 settembre: seconda parte del racconto “Questione di corna“;
– Sabato 19 settembre: terza (ed ultima) parte del racconto “Questione di corna“.
Non mancate all’appuntamento!!!
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